Cinema roberto recchioni Recensioni
Entrare nel merito critico (cioè, valutare al di là del mero gusto personale) del nuovo film dedicato al Re del Terrore, Diabolik, a opera dei Manetti Bros. non è semplice perché, prima di tutto, bisogna capirlo. E voi direte: ma che c’è di difficile da capire in un film basato su un fumetto?
E, nel caso di Diabolik, non è mica così semplice.
Prima di tutto, bisogna comprendere che questo film è potuto esistere solamente in funzione della “trinità” che sta alle sue spalle, una sorta di triangolo al cui apice c’è Mario Gomboli, direttore dell’Astorina, cioè la casa editrice fondata dalle sorelle Giussani (creatici di Diabolik ed entrambe, purtroppo, scomparse).
Mario è più di un semplice direttore generale, Mario è un protettore della fiamma, il custode del personaggio Diabolik e di tutto il suo universo, narrativo e stilistico, e della filosofia delle due sorelle che lo hanno generato. Mario è un uomo che sa con precisione chirurgica cosa va bene per il personaggio e cosa invece no e, soprattutto, Mario è uno che su Diabolik non accetta compromessi o intromissioni. Per questo motivo, tanti potenziali adattamenti cinematografici e televisivi di Diabolik (anche di altissimo profilo internazionale) sono nati e sono morti prima di vedere la luce, nel corso degli ultimi decenni: perché Mario non ha mai trovato degli interlocutori che lo convincessero fino in fondo, che gli portassero una visione di un film “di Diabolik” e non “su Diabolik”.
E cominciamo con i concetti complicati.
Intendo dire un film di Diabolik, alla maniera di Diabolik e non uno su Diabolik ma poi realizzato secondo i dettami imperanti del cinema commerciale. Ecco, i Manetti Bros. quella visione ce l’avevano.
Manetti Bros. che sono il secondo angolo del nostro triangolo.
Marco e Antonio, cineasti di ormai lungo corso (De Generazione, il loro esordio in un film antologico, è del 1995, mentre Torino Boys, il loro primo lungometraggio, è del 1997) sono riusciti nell’impresa in cui tutti avevano fallito prima: conquistare la fiducia di Mario Gomboli.
Lo hanno fatto perché veri fan del fumetto Diabolik e non perché, semplicemente, amanti del personaggio Diabolik.
Questo è il secondo concetto ostico da afferrare.
Dire “amo Diabolik” è una cosa, dire “amo i fumetti di Diabolik” è una cosa del tutto diversa.
Nel primo caso, si ama il personaggio, il concetto che sta alla sua base, la sua estetica, qualche sua peculiarità narrativa (il fatto che sia sempre affiancato da Eva, per esempio, o che guidi una Jaguar, o che sia spietato… scegliete voi).
Nel secondo caso, invece, si ama la grammatica del fumetto Diabolik, che è unica e fatta di mille sottilissime sfumature, difficili da cogliere (ma fondamentali nel risultato finale) e ancor più difficili da maneggiare.
I Manetti Bros. amano il fumetto Diabolik e quello volevano portare sullo schermo. Non gli interessava fare un film in cui il protagonista era Diabolik (ed Eva) ma che poi, a conti fatti, fosse un film come tanti, analogo a un Batman o a un James Bond.
Loro volevamo proprio portare le caratteristiche, il linguaggio, gli stilemi del fumetto Diabolik al cinema. Lo ripeto per quelli del loggione: il fumetto, non il personaggio. Questo è un concetto chiave che è importantissimo perché ha permesso ai Manetti di avere il via libera da Gomboli e che ha un peso sulla forma del film stesso.
Veniamo infine al terzo angolo del nostro triangolo: Rai Cinema.
Che il film lo ha fortemente voluto, in cui ha creduto fino in fondo e su cui ha investito moltissimo, sia per realizzarlo che per promuoverlo. E che ha già messo in cantiere due sequel.
È però la stessa Rai Cinema che sta trattando il film Diabolik, almeno in termini promozionali, come fosse un cinecomic della Marvel, un prodotto “largo” come si ama dire.
Solo che Diabolik non è un cinecomic della Marvel.
Perché non vuole essere un cinecomic della Marvel.
Perché Mario Gomboli e la Astorina non volevano che fosse un cinecomic della Marvel.
Perché i Manetti Bros. non erano interessati a realizzare un cinecomic della Marvel.
E qui viene a galla la prima dissonanza della pellicola: la differenza tra quello che è, consapevolmente e intenzionalmente, e la maniera in cui viene venduta al pubblico (e quindi percepita da esso).
Quindi, sgomberiamo il campo: state per andare a vedere Diabolik con la convinzione di assistere alla versione nostrana dei cinecomic americani?
Allora rimarrete delusi.
Forse vi incazzerete anche un poco e magari finirete a sproloquiare su Internet a proposito di “occasioni sprecate” e di “incapacità del cinema italiano di realizzare un prodotto di intrattenimento moderno”.
Come se fare un film in linea con lo standard medio americano fosse per forza un merito o un qualcosa a cui necessariamente aspirare.
Se, invece, vi metterete nella predisposizione d’animo di stare per vedere un film dal forte piglio autoriale (perché questo sono i Manetti, due autori e la coerenza del loro linguaggio cinematografico lo dimostra con chiarezza) che si pone come obiettivo primario quello di far rivivere sullo schermo non solo il personaggio Diabolik ma anche il linguaggio del fumetto Diabolik, allora, forse, troverete un gioiello.
E ora, dopo questo lunghissimo preambolo, passiamo al sodo.
Il film si basa sulla terzo albo di Diabolik (L’arresto di Diabolik, del 1963) a opera delle sorelle Giussani per i disegni di Luigi Marchesi e sul suo remake (anche nei fumetti ci sono i remake) del 2012, firmato da Mario Gomboli, Tito Faraci e Giuseppe Palumbo.
Perché proprio questa storia? Perché è in quest’albo che Diabolik conosce e s’innamora di Eva Kant, stringendo con lei una relazione indissolubile. E visto che Diabolik senza il suo rapporto con Eva è solo un Fantomas in calzamaglia, possiamo dire che si tratti della vera origin story del personaggio. Anzi, dei personaggi. Perché Eva è fondamentale quanto Diabolik nell’equilibrio delle storie.
La pellicola resta molto aderente all’episodio originale, portandosi intenzionalmente dietro anche le sue ingenuità (ma l’ambientazione anni ‘60 aiuta molto a renderle digeribili per tutti) e alcune delle sue lungaggini, come pure i tanti momenti “spiegone” e gli elementi didascalici che, da sempre, caratterizzano la grammatica fumettistica del Re del Terrore.
Questo è uno dei primi aspetti in cui si vede il grande e rispettoso lavoro da appassionati fatto dal duo registico (coadiuvati alla sceneggiatura da Michelangelo La Neve, uno che di fumetti ne ha scritti tanti) ed è molto bello. Ma è anche qui che cominciano ad emergere quegli aspetti “anomali” della pellicola che potrebbero far storcere il naso a chi fosse alla ricerca di un approccio narrativo più “moderno”, ovvero, “uguale a quello di tutti gli altri cinecomic fatti con lo stampino”.
Altro elemento controverso riguarda la recitazione, che con la sola esclusione dei tre personaggi principali (Diabolik, Eva e Ginko) è tutta sopra le righe, in maniera insistita e quasi grottesca (per molti versi ricorda quanto fatto da Warren Beatty con Dick Tracy ma pure da Tim Burton con i due Batman). È come se i Manetti avessero voluto far emergere solamente Luca Marinelli, Miriam Leone e Valerio Mastrandrea come “veri” esseri umani reali tridimensionali, relegando tutti gli altri attori a ruoli bidimensionali. “Macchiette da fumetto” si diceva un tempo in maniera dispregiativa. A questo aggiungiamoci un linguaggio neutro e irrealistico, dei dialoghi molto impostati e spesso didascalici e qualche esclamazione esagerata per rendere tutto “come nel fumetto” e vi dovrebbe essere chiaro perché queste scelte raffinate e coraggiose, ma anche in controtendenza con lo stile dei cinecomic USA, finisce per deliziare alcuni (me, per esempio) e infastidire altri.
Poi c’è il film in quanto tale. Che è lungo e strutturato, caratterizzato da un ritmo un poco discontinuo con un ottimo prologo d’azione (una cold opening dal forte rimando bondiano in tutto e per tutto), un primo atto che costruisce bene, un secondo atto che si siede leggermente (ma che si prende il giusto tempo per raccontare bene la dualità di Diabolik nel rapporto con le due donne che gli stanno accanto nella storia) e, infine, un terzo atto che torna a correre, portando tutto a felice conclusione (almeno per Diabolik ed Eva, Ginko resta – come da prassi – con un mucchio di cadaveri tra le mani).
I Manetti alternano molte soluzioni visive di classe (proprie non solo del cinema per loro di riferimento ma facenti parte ormai del loro bagaglio autoriale) a qualche raro momento più sciatto (anche qui, quasi un segno di stile per i due registi) e vengono splendidamente coadiuvati dal felice montaggio di Federico Maria Mareschi, dalla splendida fotografia di Francesca Amitrano, dai bei costumi di Ginevra De Carolis e dalle convincenti scenografie di Noemi Marchica.
A svettare su tutto in termini di qualità, però, c’è la colonna sonora composta da Pivio e Aldo De Scalzi, impreziosita da due pezzi inediti di Manuel Agnelli. Uno score musicale da fare invidia alle più grandi produzioni mondiali.
Infine, il cast. Sulle figure di contorno non c’è molto da dire, chiamate come sono a interpretare quasi delle maschere da commedia dell’arte (anche se mi sento di segnalare lo stile di Luca Di Giovanni, una sorta di Buster Keaton italico). Un poco di più possiamo aggiungere su Alessandro Roja e Serena Rossi, a cui viene chiesto di stare sempre molto sopra le righe e loro lo fanno con zelo. Alla Rossi viene forse più naturale mentre Roja, a tratti, sembra non crederci fino in fondo o non capire esattamente il senso di quello che sta facendo, ma entrambi portano a casa il risultato. Il discorso cambia per Mastandrea, che invece interpreta un Ginko tutto in sottrazione e risulta straordinariamente aderente al personaggio e incisivo. Luca Marinelli è forse il punto più debole del cast (strano a dirsi perché, almeno nominalmente, sarebbe il protagonista). Il suo problema non è tanto la non enorme somiglianza con il Re del Terrore (non è così importante, in fondo), quanto il fatto che fa benissimo le cose più difficili (straordinaria la scena con il registratore in cui, con pochissime sfumature, riesce a raccontare tantissimo su Diabolik), mentre gli riescono peggio le cose più semplici, quelle dove dovrebbe far emergere la presenza scenica e la fisicità del personaggio. Marinelli sembra riuscire a connettersi perfettamente con la complessa e a tratti contraddittoria dimensione psicologica di Diabolik, quella che lo rende un freddo eppure feroce genio del crimine, ma appare slegato dalla non sua dimensione fisica di uomo d’azione.
E veniamo a lei, l’indiscussa protagonista del film, Miriam Leone.
Che non è mai stata così brava, così bella, così intensa, così centrata in una parte. La cinepresa la adora e lei si prende tutta la scena ogni volta che appare. Sono certo che quando Hollywood vedrà questo film, le offrirà ogni ruolo possibile. Detto questo, è lei il centro della storia e l’attrice con più tempo a schermo e se il film si fosse chiamato “Eva Kant” sarebbe andato bene lo stesso.
Anzi, forse sarebbe stato anche meglio.
E quindi, andiamo a stringere.
Il film mi è piaciuto?
Da appassionato dei fumetti di Diabolik, da ex-sceneggiatore dei fumetti di Diabolik, da amante del cinema e da persona che prova una profonda stima e amicizia per Antonio e Marco Manetti (cosa che va detta per onestà intellettuale), posso dire che Diabolik – il film – mi è piaciuto molto.
Da critico più equilibrato devo riconoscere che, nonostante le ambizioni di Rai Cinema, questo non è un film per tutti: è pieno di scelte difficili, molto rigorose e del tutto in linea con la filosofia e con quell’idea di cinema che i Manetti Bros. portano avanti sin dall’inizio della loro carriera, ma che possono alienare una parte del pubblico alla ricerca di un prodotto-opera più convenzionale.
Il mio consiglio?
Andatelo a vedere comunque.
Se proprio non vi dovesse piacere, almeno avrete visto qualcosa di davvero diverso da tutto il resto.
Che nel desolante panorama cinematografico degli ultimissimi anni, non è per nulla poco.
P.S.
Se poi di Diabolik ne voleste ancora, io vi consiglio di recuperare anche quel gioiellino visionario di Danger Diabolik, diretto da Mario Bava nel 1968.