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Squid Game, le ragioni del suo successo

Pubblicato il 10 ottobre 2021 di DocManhattan

È stato praticamente impossibile frequentare i social, e più in generale Internet, nelle ultime settimane, senza imbattersi in qualcuno che parlasse di Squid Game. Una serie TV coreana in cui tutti, Netflix compresa, credevano così poco che non è stata neanche doppiata in diverse lingue. Tra cui la nostra. Ma cos’ha spinto praticamente chiunque, dai vostri amici del calcetto alla zia Adalgisa che credevate guardaste solo repliche di vecchie soap su Rete4, a guardare questo Battle Royale di Seul, su giochi per bambini mortali e pieno di nomi pronunciati in modo completamente diverso da quello che si legge nei sottotitoli? Ok, il passaparola ha avuto ovviamente un suo peso enorme, come sempre: guardi una cosa perché ne senti tanto parlare. Anche solo per poter scrivere su Facebook: “Sarò il solo a cui non è piaciuta?” (no, se una cosa la guardano milioni di persone, non puoi mai essere il solo, amico mio. È statistica). Ma il passaparola non basta a spiegare un fenomeno planetario come quello di Squid Game. E allora? Quali sono le ragioni del suo successo?

BATTLE ROYALE, VENTUNO ANNI DOPO

Che la fonte d’ispirazione – dichiarata – del tutto sia Battle Royale è evidente, da subito, a chiunque abbia avuto a che fare con quel franchise multimediale nipponico nato poco più di vent’anni fa. Il romanzo di Koushun Takami, pubblicato nel 1999, diventato l’anno dopo un manga popolarissimo e un ancor più celebre film live action. Un film diretto da un incarognitissimo Kinji Fukasaku, crudo come la carne appena macellata e ancor più adatto a raccontare la spettacolarizzazione della violenza, l’homo homini lupus, il contrasto generazionale tra giovani e anziani tipico del Giappone.

Una critica velenosa nei confronti del paese ancora alle prese con il suo “decennio perduto”, che di lì a poco si estenderà fino a diventare il ventennio (secondo alcuni trentennio) di recessione. Tanto che il ruolo del Professore diventa nel film di Battle Royale quello di “Kitano”, interpretato da Takeshi Kitano. L’ideatore e volto, tra le altre cose, del celebre Takeshi’s Castle: Mai Dire Banzai con la gente che muore davvero, non viene solo umiliata cadendo allegramente in una pozza di fango.

Hwang Dong-hyuk, che Squid Game se l’è scritto e diretto tutto da solo, ha dichiarato in varie interviste di non esser portato per il lavoro di squadra. Ma questa produzione l’ha devastato e, se una seconda stagione si farà – e non credo esistano ragioni per non farlo – gli piacerebbe cambiare metodo e farsi affiancare da un team di sceneggiatori e registi. Reduce dal successo in Corea di film come Dogani (noto all’estero come Silenced, uscito nel 2011 e avente per protagonista Gong Yoo, che in Squid Game fa lo schiaffeggiatore/procacciatore di nuovi giocatori) e del dramma storico The Fortress (2017), a inizio anni Duemila Hwang Dong-hyuk se la passava piuttosto male.

Ai microfoni di Variety, il regista ha raccontato che agli inizi della carriera trascorreva gran parte del suo tempo nell’equivalente coreano dei manga café (manhwabang), leggendo manga giapponesi come Battle Royale e Liar Game. Il primo racconta di studenti costretti ad affrontarsi in una lotta all’ultimo sangue per un paese totalitario che sorge al posto del Giappone, il secondo (anch’esso diventato un live action: una serie giapponese e una coreana) parla di un altro gioco spietato in cui si è costretti a mentire e si parla di gente indebitata fino al collo.

Di base, resta anche in Squid Game “l’allegoria degli effetti della società capitalista”, per usare le parole di Hwang Dong-hyuk – che ha iniziato a sviluppare questa serie nel 2008 – ed è facile pensare che possa aver fatto leva, con gli stessi elementi, su un pubblico che non conosce Battle Royale, ad esempio. Ma la faccenda non è così semplice. Di nuovo: non è solo questo.

MINOTAURI NO, MA NEANCHE ALICE

Quando si parla di queste storie in cui i partecipanti crepano per una sorta di spettacolo/rituale organizzato da qualcun altro, si sottolinea spesso quanto questo tipo di canovacci sia in effetti antichissimo. Il mito di Teseo, dei fanciulli ateniesi inviati ciclicamente a Creta per esser divorati dal minotauro, non è che l’hanno inventato ieri, per dire. Ed è quello che è pronta a dirvi Suzanne Collins ogni volta che qualcuno accosta il suo Hunger Games a Battle Royale. Almeno in parte vero: Hunger Games è effettivamente più assimilabile, soprattutto da principio, al mito del minotauro, alla base di tutto. Che poi lei sia venuta davvero a conoscenza di Battle Royale solo in seguito o meno è un altro paio di maniche.

Ma Squid Game, di Battle Royale, è il figlio dichiarato. O un cugino di primo grado, quanto meno. Eppure altre opere simili, nate in Giappone come Battle Royale e anche spinte con più convinzione – come ha fatto Netflix per Alice in Borderlands, anch’essa a base di giochi mortali – non hanno avuto la stessa risonanza planetaria. Anzi, Alice in Borderlands è tornata in classifica ora, in Italia e in altri mercati, come surrogato per tutti quelli che hanno finito di vedere Squid Game. Ha senso.

Lo stesso vale per un film come As the Gods Will, uscito nel 2014, ispirato anch’esso a un manga (del 2011) e a base di giochi per bambini violenti a cui sono obbligati a partecipare degli studenti. Tra cui un Un-due-tre-stella sotto gli occhi di una bambola daruma meccanica gigante.

Il che ci riporta però alla domanda iniziale. Alle ragioni di questo successo. Credo personalmente che i fattori siano molteplici, e abbiano generato quell’incendio che il passaparola ha fatto poi divampare. Che in Corea del Sud Squid Game sia così popolare è comprensibile, anche perché il tema dell’indebitamento folle delle persone è sentito, presente, reale e dalle conseguenze comprensibilmente drammatiche. Quella povera tizia a cui apparteneva il numero mostrato nello show ha ricevuto migliaia di chiamate al giorno, parte delle quali di chi a un gioco mortale del genere avrebbe partecipato davvero, pur di staccarsi dalla canna del gas.

Ma anche all’estero la storia intrigante di una sfida per la sopravvivenza in cui dei semplici giochi infantili, che da bambini non hanno pressoché competizione, si trasformano in una gara letale, ha fatto presa. Per questo contrasto tra i giochi da cortile e centinaia di morti ammazzati in modo spietato, ma anche per la confezione del tutto. E a questo amore del pianeta per la Corea.

IL MONDO HA SCOPERTO LA COREA DEL SUD

“Ha fatto la Corea” era quell’espressione che un tempo si utilizzava nei fumetti e nelle serie TV per indicare dei reduci americani leggermente più giovani di quelli finiti nella Seconda Guerra Mondiale e troppo grandi per esser stati in Vietnam. Ma negli ultimi anni la Corea del Sud è diventata l’epicentro di una cultura pop da esportazione importantissima, fenomeno almeno in parte correlato alla scoperta, da parte di mezzo globo, del fatto che a Seul e dintorni sanno tirar fuori delle opere notevolissime.

Spettatori giovani o meno giovani e in tal caso distratti, che vent’anni fa si sono persi per strada evidentemente la trilogia della Vendetta di Park Chan-wook e altre pellicole di assoluto rilievo – come alcuni dei primi lavori di Bong Joon-Ho, The Host su tutti – hanno rivolto il proprio sguardo verso quel mondo dopo il trionfo di Parasite. Che, come notato da tanti, giocava del resto con grazia ed eleganza registica infinite su alcuni degli stessi temi di Squid Game: la lotta di classe condita da un’improvvisa esplosione di coltellate.

Il tutto mentre una band coreana come i BTS ha venduto nel 2020 più di qualsiasi altro artista del pianeta: la punta dell’iceberg di un fenomeno come quello del K-Pop, ben noto ai più giovani e capace, al contempo, di capitalizzare, cavalcare e amplificare l’interesse per la pop culture coreana.

Mettiamoci anche i meriti che Squid Game indubbiamente ha, come una costruzione gradevole dei personaggi, alcuni dei quali (pochi, ma ci sono) riescono perfino a smollarsi un attimo dai soliti stereotipi, e che restano sempre al centro della vicenda, visto che le regole del tutto sono volutamente semplicissime. Ma anche e direi soprattutto dei colori supersaturi, delle immagini efficaci come la struttura formicaio con le scalinate alla Escher, le tute rosse da Casa di carta abbinate a quelle maschere bellissime con i simboli del gioco del calamaro – e per noi tutti del pad della PlayStation, X esclusa.

C’è perfino il cattivo mascherato che sembra una versione da discoteca coi soldi del Dottor Destino. Non è un caso che la bambina meccanica dell’Un-due-tre-stella, le maschere e tanto altro siano diventati immediatamente ubiquo materiale da meme. Funzionano al primo impatto, non devi metabolizzare nulla.

Resterà qualcosa di Squid Game? Cosa racconterà un’eventuale seconda stagione, alla quale il finale della prima spalanca le porte (e chiude un gate)? Magari qualcosa di non dimenticabilissimo come il secondo film di Battle Royale, il terrificante (ma nell’accezione sbagliata del termine) Requiem, si spera. È tutto solo un fenomeno di quelli che si montano e poi sgonfiano in fretta, alla stessa velocità? Può anche darsi. Ma a Netflix, che si frega le mani per il risultato e si dà le manate in fronte per non aver già doppiato il tutto pure in molisano, non è che cambi molto.