Un Autre monde – La recensione del film di Brizé da Venezia 78

Un Autre monde – La recensione del film di Brizé da Venezia 78

Di Lorenzo Pedrazzi

La trilogia di Stéphane Brizé sul mondo del lavoro si chiude con Un Autre monde, ma stavolta Vincent Lindon passa dall’altra parte della barricata: il suo personaggio non è più un operaio, bensì un dirigente d’azienda. Gettare uno sguardo sull’altro mondo, quello di chi prende le decisioni, permette al regista francese di allargare gli orizzonti della sua critica sociale, focalizzando l’attenzione su chi opera a più stretto contatto con le leggi del mercato.

Il protagonista, Philippe Lemesle, dirige la filiale di una multinazionale americana che ha deciso di tagliare alcuni posti di lavoro. Le richieste sono difficili e incoerenti: come si può mantenere lo stesso livello di produttività con meno lavoratori? Senza contare il problema più grande, ovvero il dramma di chi si ritroverà disoccupato. Philippe cerca di trovare una soluzione indolore, ma deve remare contro l’ostilità della dirigenza nazionale, che non accetta compromessi. Intanto, il confronto quotidiano con gli operai diviene sempre più teso, e la sua vita privata rischia di andare in pezzi: il suo matrimonio sta per finire, mentre il figlio minore si trova in una clinica psichiatrica.

È anche questo l’altro mondo del titolo: la sfera degli affetti, dei legami familiari. Brizé racconta le difficoltà di un uomo che vive nella zona grigia tra fabbrica e mercato, tra classe operaia e alta dirigenza. Ammettere il suo dolore sarebbe offensivo nei confronti dei lavoratori meno agiati, e costituirebbe un segno di debolezza agli occhi dei capi. Un Autre monde è un film sullo scollamento tra umanità e potere che caratterizza il capitalismo neoliberista, dove non c’è spazio per le esigenze degli individui, ma solo per i dettami della borsa: memorabile, in tal senso, la scena della videoconferenza con Cooper, l’amministratore delegato della multinazionale. Il profitto è l’unico dio, e Wall Street è il suo profeta.

Vita privata e lavoro si influenzano a vicenda, e l’alternanza delle due sfere imprime al film una cadenza molto precisa: Philippe affronta le questioni aziendali con in testa i problemi familiari, e viceversa. È un loop senza uscita, ma l’uomo non può permettersi di farli trasparire al di fuori dei rispettivi contesti (non a caso, il divorzio è stato causato dall’impatto del lavoro sul matrimonio). Brizé usa quindi il cinéma vérité per cogliere i personaggi nell’intersezione fra pubblico e privato, dove le pressioni lavorative danneggiano la libertà individuale. Un conflitto che si rapprende sul volto di Vincent Lindon, interprete straordinario che rende verosimile ogni sfumatura della vita di Philippe. Il resto lo fa Brizé stesso, capace di confezionare sequenze poetiche e delicatissime, affidandosi alla musica e al linguaggio corporeo degli attori. Insomma, il concorso di Venezia 78 si chiude con uno splendido acuto.

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