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Sex appeal dell’inorganico: la recensione di Titane

Pubblicato il 30 settembre 2021 di Lorenzo Pedrazzi

Mutare la carne in metallo, operando una transustanziazione profana. Accade alla protagonista di Titane, ma anche alla nascente filmografia di Julia Ducournau: se il suo primo film, Raw, metteva al centro la carne come pulsione incontrollabile, Titane ne supera i limiti e sfreccia verso l’evoluzione della specie. La brama di carne cruda volgeva lo sguardo al passato, era un bisogno istintivo che rievocava l’alba dell’uomo; qui, invece, ogni pulsione tende inesorabilmente verso il futuro.

“La sessualità neutra non è disumana, né inumana” scrive Mario Perniola ne Il sex appeal dell’inorganico: “essa è semmai postumana nel senso che trova il suo punto di partenza nell’uomo, nella sua spinta verso l’artificiale che lo ha costituito come tale separandolo dagli animali, […] nel suo irriducibile tendere verso un’esperienza eccessiva”. Ecco, tale “spinta verso l’artificiale” rappresenta il nucleo del film, insieme a una sessualità neutra che non è necessariamente virtuale, ma sfida le nostre concezioni più radicate. La metamorfosi comincia fin dall’infanzia di Alexia, interpretata da Agathe Rousselle: già bambina, Alexia si ritrova con una placca di titanio in testa dopo un incidente automobilistico, e sviluppa un amore smodato per le automobili. Diversi anni più tardi, la vediamo esibirsi nei motor show con abiti succinti e movimenti sensuali, circondata da fan adoranti. Alexia, però, non li nota nemmeno: tutta la sua attenzione è calamitata dalle auto, in particolare la massiccia Cadillac su cui si esibisce. Qualcosa dentro di lei è attratta dal metallo, più che dalla carne.

Un padre anaffettivo, un pubblico bavoso e lubrico, un ammiratore che la molesta: dall’umanità, Alexia ricava solo dolore. E lo restituisce, perché la ragazza è una brutale serial killer, all’insaputa dei genitori. Soltanto le automobili suscitano in lei un desiderio profondo, che sfocia in un intenso rapporto sessuale dentro la Cadillac, con la macchina stessa. Ne consegue una misteriosa gravidanza che trasforma gradualmente il suo corpo, e la porta a mascherarsi da ragazzo per sfuggire alla polizia, fingendosi il figlio perduto di un capitano dei vigili del fuoco (Vincent Lindon). Quest’ultimo, Vincent, è un uomo tormentato che si inietta ormoni per mantenere la sua forza. Alexia irrompe quindi in un contesto dominato dalla solidarietà virile: con il suo aspetto androgino (il seno fasciato, i capelli rasati, il naso rotto), la ragazza disturba l’energia che intercorre tra i membri della squadra, come lamenta un giovane pompiere.

È qui che Titane dimostra la sua indipendenza dal body horror del passato. La poetica della “nuova carne” non è affatto inedita, come la contaminazione tra corpo umano e macchina: Cronenberg ne ha tratto dei capolavori, da Videodrome a Crash. Julia Ducournau la reinterpreta però a modo proprio, impostando un discorso sulla fluidità sessuale e sul superamento del binarismo di genere. L’automobile stessa – per buona pace di D’Annunzio – non è né maschio né femmina, ma si libera dalle costrizioni di questa dicotomia: è un’entità neutra, priva di attributi sessuali. Alexa, dal canto suo, perde l’iperfemminilità degli inizi e diviene androgina, fino a provocare un cortocircuito quando balla sensualmente alla festa dei vigili. Anche il malcelato omoerotismo tra i pompieri guarda oltre il binarismo di genere, ma è paradossalmente “reazionario” se paragonato all’ambiguità di Alexia: nel suo essere né uomo né donna, né umana né macchina, la protagonista azzera il conflitto tra questi poli opposti, e la sua presenza genera shock, turbamento, disagio. Ducournau mette in crisi i nostri preconcetti non solo sulle distinzioni di genere, ma anche su cosa sia umano.

Tale “corpo mutante” – come dice Teresa Macrì ne Il corpo postorganico – segna “il passaggio da una identità obsoleta a una in fibrillante metamorfosi”, necessario per sopravvivere alle sfide del futuro. Non è un caso che l’evoluzione di Alexia sintetizzi la ricerca della body art e di performer estremi come Stelarc e Orlan, con i loro corpi mutati, contaminati e amplificati. Riecheggiando il cyberfemminismo di Donna Haraway, Titane auspica un’evoluzione postorganica che distrugga i vecchi dualismi, da sempre funzionali alle logiche di oppressione. Purtroppo, nella visione di Ducournau questo processo esige un grande sacrificio, che riflette tutta la storia della condizione femminile. Ciò che ne risulta è un primo passo nel mondo nuovo, ovvero l’araldo (messianico?) di un futuro inesplorato.

In questo film di corpi che si sfaldano e legami che si disfano, nemmeno la famiglia tradizionale è al sicuro. Alexia si libera dei genitori biologici – e soprattutto di un padre che non voleva nemmeno toccarla – per ritrovarsi con una figura paterna di natura opposta: Vincent ha infatti un bisogno viscerale di contatto fisico, tende ossessivamente al controllo, si prende anche responsabilità non sue. Lui e Alexia sono torturati dalla prigione del corpo, per ragioni diverse: da una parte c’è l’invecchiamento, dall’altra una gravidanza metamorfica. In entrambi i casi, però, la carne è sottoposta a una trasformazione che i due personaggi cercano di arrestare. Speranza vana, poiché Vincent rappresenta il passato, ed è quindi condannato al decadimento fisico; mentre Alexia incarna il futuro, e le sue membra valicano la distinzione fra natura a artificio. Così, Titane avvalora il talento cristallino della regista francese per l’horror intimista, che penetra sotto pelle e sfida le convenzioni.