The Power of the Dog – La recensione del film di Jane Campion da Venezia 78

The Power of the Dog – La recensione del film di Jane Campion da Venezia 78

Di Lorenzo Pedrazzi

Se Top of the Lake era la “resa dei conti” fra i sessi, The Power of the Dog è il film con cui Jane Campion supera la dicotomia uomo/donna per esaminare un conflitto diverso, tutto interiore. Intendiamoci, non è la prima volta che la figura del cowboy subisce una decostruzione di questo tipo: sedici anni fa ci aveva pensato Ang Lee, proprio qui a Venezia, a rileggere il “mito” in termini queer. Ma lo sguardo spietato della cineasta neozelandese penetra nelle contraddizioni più profonde del machismo (ricordate quando fece vestire Harvey Keitel da donna in Holy Smoke?), e realizza un western atipico che si consuma lentamente.

Il punto di partenza è l’omonimo romanzo di Thomas Savage, la cui tematica presta il fianco al discorso della regista. Siamo nel Montana degli anni Venti, e il rude Phil Burbank (Benedict Cumberbatch) gestisce un ranch col fratello George (Jesse Plemons), uomo dal carattere mite e gentile. Quando George sposa la giovane vedova Rose (Kirsten Dunst), a Phil l’idea non va giù, e comincia a torturarla psicologicamente. Fa lo stesso col figlio di lei, Peter (Kodi Smit-McPhee), ragazzo timido che vuole studiare da chirurgo ed è oggetto di scherno da parte dei cowboy che lavorano nel ranch. Ciononostante, Phil nutre anche un crescente interesse per il ragazzo, e decide di insegnarli a cavalcare, come il suo “nume” Bronco Henry aveva fatto con lui molti anni prima.

Non è difficile intuire la carica omoerotica del rapporto tra allievo e insegnante, peraltro disseminata anche nel cameratismo tra cowboy: quando li vediamo giocare nudi in un torrente, tra scherzi “virili” e grasse risate, sappiamo bene dove Jane Campion voglia andare a parare. Il suo merito, però, è di non essere mai didascalica. Non ci sono dialoghi esplicativi, né una narrazione extradiegetica che accompagna lo spettatore: Campion lavora piuttosto sul non detto, sui dettagli rivelatori (ma nascosti), chiamando il pubblico a fare le proprie deduzioni. Per una regista abituata a raccontare storie femminili, The Power of the Dog è il primo film incentrato sulla psicologia maschile, e anche un grande atto d’amore sul corpo di un uomo: il Phil di Benedict Cumberbatch è un personaggio complesso, ultimo di una lunga fila di ruvidi amanti che popolano il suo cinema. Campion accarezza il suo corpo con inquadrature che ne sottolineano la viscerale solitudine, perché Phil può essere davvero sé stesso solo nell’isolamento della natura. E le scene cult, in tal senso, non mancano.

La meravigliosa fotografia di Ari Wegner fa il resto, immergendo i personaggi negli orizzonti sconfinati della Nuova Zelanda (che fa da “controfigura” al Montana) o chiudendoli nella lugubre oscurità degli interni. Al contempo, Campion è abile a valorizzare la silhouette filiforme di Kodi Smit-McPhee in un contesto sociale che celebra la muscolarità, e dove il fisico acerbo del ragazzo pare l’ombra di quello di Phil. Il mito della virilità crolla sotto il peso delle sua stessa fama, rivelandosi una maschera che nasconde nevrosi, ansie sociali, devianze e pulsioni sessuali represse. The Power of the Dog le riporta in superficie, lasciando allo spettatore il compito di ricostruirne i collegamenti psicologici e narrativi.

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