Immaginate che al mondo esistano solamente due o tre bambini particolarmente ricchi e che questi
bambini possiedano la maggior parte dei giocattoli, presenti e passati.
Immaginate pure che questi bambini non sappiano cosa farci con questi fantastici balocchi perché privi di fantasia, e che per questo chiamino altri bambini, molto più ingegnosi di loro, per farceli giocare.
E poi immaginate che questi bambini ricchi, possessori di tutti i divertimenti del mondo, siano anche un poco prepotenti e non permettano agli altri bambini di esprimersi liberamente ma gli dicano come debbano giocare. Se qualcuno non li sta a sentire, loro si riprendono il giocattolo che gli avevano dato e lo mettono nelle mani di qualcun altro.
Questa, grossomodo, è la condizione in cui si trovano più o meno tutti i creativi nei confronti delle multinazionali dell’intrattenimento, ormai detentrici di gran parte delle proprietà intellettuali che l’essere umano ha creato e messo sotto copyright. Nonostante questo, alcuni autori riescono a stare a queste regole e trovano una via per esprimere comunque la loro individualità. È il caso, per esempio, di James Gunn, un regista pazzerello che prima di approdare alla corte della Disney-Marvel era conosciuto per essere una delle più talentuose giovani leve della Troma (sua la regia, assieme a Lloyd Kaufman di quel capolavoro del weirdo che va sotto il nome di Tromeo and Juliet), per una web serie parodistica a tema pornografico (James Gunn’s PG Porn), per un delizioso e scemissimo horror a basso budget con Nathan Fillion come protagonista (Slither) e per Super, un crudissimo e bellissimo film di superereoi dal taglio realistico (con tutto quello che ne consegue in termini di violenza e disincanto da un approccio simile al genere).
E poi, il grande balzo: Kevin Feige (dimostrando non poco acume) lo invita a casa sua per la merenda e per giocare con dei vecchi pupazzetti che ha ritrovato in uno scatolone impolverato: i Guardiani della Galassia.
Adesso, chiariamo un punto: prima che i Marvel Studios rimettessero sulla mappa del mondo i Guardiani, il gruppo di eroi spaziali creato da Arnold Drake e Gene Colan era noto (e nemmeno tanto) solo ai più appassionati lettori dei fumetti della Casa delle Idee. Persino nel momento della loro massima popolarità cartacea (nei primi anni ’90, con Jim Valentino alla sceneggiatura e ai disegni), i Guardiani non erano neanche vagamente prossimi alla popolarità di personaggi come gli X-Men, gli Avengers o Spider-Man. Stiamo quindi parlando di una proprietà intellettuale di scarso interesse e valore che poteva essere stravolta e reinventata per il grande schermo senza che orde di fan inferociti se ne risentissero. E Feige chiese proprio questo a Gunn: di giocare liberamente con quei pupazzetti che non interessavano a nessuno e vedere se riusciva a tirarci fuori qualcosa di buono. L’unica regola: non esagerare con la violenza o l’umorismo grottesco (tipici dello stile del regista, fino a quel punto della sua carriera) perché, alla fine della fiera, doveva essere un film per tutti.
Il resto, come si suol dire, è storia: i Guardiani della Galassia divenne uno dei più grandi (e inaspettati) successi dei Marvel Studios, sia di pubblico sia di critica, e Gunn passò da zero a eroe nell’arco di un weekend, una stella di prima grandezza a cui affidare in fretta il sequel.
Che venne meno bene del primo.
Non brutto, ma nemmeno così libero, imprevedibile e divertente come il capitolo originale.
Perché i Guardiani non erano più dei pupazzetti senza valore con cui fare quello che si voleva, ma delle proprietà intellettuali pregiate da maneggiare con cura, sia in relazione ai vari sfruttamenti commerciali (action figures di Baby Groot in testa), sia in relazione alla complessa continuity dei film Marvel in cui i Guardiani andavano inscritti con maggior decisione.
Comunque sia, anche il secondo film andò molto bene, e quindi tutti contenti.
Tranne James Gunn, che dopo l’uscita della pellicola venne allontanato dalla Disney, per una storia di vecchi e stupidi Tweet che aveva scritto quando aveva vent’anni e che qualcuno aveva ben pensato di ritirare fuori.
Ed è a quel punto che si fece sotto la Warner/DC, che si avvicinò al regista e gli disse… “vieni con noi, abbiamo i biscotti”.
E oltre ai biscotti, avevano anche un’offerta di quelle che non si potevano rifiutare: la totale libertà di fare un film su un gruppo di supertizi di cui non fregava nulla a nessuno e con cui poteva fare quello che voleva, slegato dalle pastoie della continuity (proprio come i primi Guardiani) ma questa volta senza nemmeno il limite sulla violenza o sull’umorismo politicamente scorretto, perché il film sarebbe stato rated R (cioè vietato ai minori di diciassette anni senza la presenza di un adulto).
In sostanza, la Warner offriva a Gunn non solo l’occasione di una rivalsa nei confronti della Casa delle Idee e della Disney, ma pure la possibilità di essere sé stesso, senza alcuna limitazione di sorta.