The Suicide Squad – La recensione del film di James Gunn

The Suicide Squad – La recensione del film di James Gunn

Di Lorenzo Pedrazzi

Con l’inatteso successo di Guardiani della Galassia, Hollywood non ha scoperto solo il talento di James Gunn, ma un modo alternativo di realizzare i propri blockbuster. Che piaccia o meno, Gunn riesce a entrare in sintonia con il pubblico attraverso un’efficace commistione di nostalgia (grazie alla sovrabbondanza di pezzi rock, pop e disco nella colonna sonora), umorismo goliardico e una lucida consapevolezza dei generi. Ne potrebbe risultare un gelido esperimento postmoderno, ma il regista americano è bravo a dosare gli ingredienti, e i suoi cinecomic – vale anche per il bizzarro Super – lasciano molto spazio al versante emotivo, cercando una lacrima dietro ogni risata. I brani musicali lavorano proprio su questo elemento, a dimostrazione di come Gunn sappia parlare direttamente alla “pancia” degli spettatori.

Se consideriamo le sue qualità creative, non poteva esserci un film più adatto di The Suicide Squad per farlo esordire nell’universo DC. Gunn dà il meglio di sé quando mette in scena il riscatto degli emarginati, e i supercriminali dei fumetti – soprattutto quelli di terz’ordine – sono la quintessenza del “perdente”. Dotati di equipaggiamenti o poteri ridicoli, sempre malmenati dall’eroe di turno, i supercriminali trovano solidarietà nel loro destino comune, dividendosi tra egoismo e senso di responsabilità. Già David Ayer ci aveva provato nel film precedente, ma mancava il cuore pulsante dei personaggi, i cui legami erano privi di una vera esigenza (è giusto ricordare, però, che la versione uscita nelle sale non rispecchiava la visione originaria del regista, costretto dalla produzione a puntare di più sull’umorismo). Gunn riceve invece carta bianca, e costruisce il film nel modo che gli è più congeniale.

La trama non ha bisogno di grandi premesse, e ci proietta subito nell’azione. Amanda Waller assembla la Task Force X per smantellare il Progetto Starfish, che coinvolge una misteriosa creatura aliena sull’isola di Corto Maltese, diventata nemica degli U.S.A. in seguito a un colpo di stato. Al Colonnello Rick Flag viene affidato il comando della missione, cui partecipano vari supercriminali che sperano di uscirne vivi per avere uno sconto di pena. Molti di loro non saranno così fortunati, ed è qui che risiede la prima differenza tra il film di James Gunn e quello di Ayer, o qualunque altro cinecomic: The Suicide Squad considera i suoi protagonisti come carne da macello, e la posta in gioco è sempre molto alta. Certo, è facile farlo con gente come Savant, Javelin, Mongal e Weasel, ma Gunn (anche sceneggiatore) dimostra un cinismo abbastanza raro a Hollywood, e mette in chiaro fin dall’inizio che nessuno è al sicuro.

In tal senso, The Suicide Squad ha forse più in comune con Super che con Guardiani della Galassia: protagonisti reietti che solidarizzano e cercano riscatto, cinismo diffuso, parossismi grotteschi e splatter. La classificazione restricted gli permette di rispolverare il suo vecchio amore per il gore, che lo accompagna dai tempi di Tromeo and Juliet e dei cortometraggi PG-Porn. C’è un gusto frastornante per l’esagerazione che ci fa uscire dalla sala rintronati e satolli, ma Gunn non fa nulla per caso. È un guastatore e un iconoclasta, senza dubbio, eppure nutre un sincero attaccamento per i suoi “eroi” (almeno quelli principali). E allora, anche personaggi un po’ scapestrati come Bloodsport, Peacemaker, Polka-Dot Man, King Shark e Ratcatcher finiscono per avere una personalità ben definita, tratteggiata con pennellate grezze ma espressive, spesso in conflitto gli uni con gli altri.

La divisione in capitoli e la scomposizione temporale (solo saltuaria) rendono incalzante una storia piuttosto lineare, dove lo spettacolo visivo, le gag paradossali e i personaggi stessi contano più dell’intreccio. È un cinema d’azione che non si ferma quasi mai, costruito sull’amore per i film bellici degli anni Settanta, a conferma di come Gunn resti pur sempre un regista postmoderno: parla il linguaggio del pubblico, attinge dall’immaginario collettivo, cita i modelli del passato con ironica consapevolezza. È una formula sicura, che lui non si azzarda a rinnovare dopo il successo dei Guardiani; al limite, qui lavora con una libertà persino maggiore, e anche un maggior numero di più ambientazioni reali.

Si tratta indubbiamente di uno dei blockbuster più compositi degli ultimi anni, sia nei generi sia nell’estetica. I toni fluo del digitale, tipici di Gunn, contrastano con i colori materici dello spazio fisico, e lo stesso vale per i costumi di Judianna Makovsky: The Suicide Squad abbraccia anche il lato più camp dei fumetti senza alcuna ritrosia, consapevole che non si debba giustificare nulla davanti al grande pubblico. La cultura pop non ha bisogno di mascherare la propria natura per rendersi più presentabile o “verosimile”, e Gunn lo sa bene. Ad aggiungere uno spessore “terreno” ci pensano gli attori, dai quali riesce a ottenere il meglio nelle situazioni più assurde. Il sempre ottimo Idris Elba fa un’imperdibile parodia del machismo, seguìto a ruota dal sorprendente John Cena, che tornerà anche nella serie su Peacemaker. Al contempo, è bello vedere David Dastmalchian in un ruolo di primo piano, e scoprire la grazia di Daniela Melchior nel ruolo più delicato del film. Ne deriva un cast corale molto equilibrato (compresa la brillante Margot Robbie), che riflette l’anima eterogenea di questo spassoso blockbuster.

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