The Story of My Wife, il kolossal europeo con Léa Seydoux e Rubini che non convince

The Story of My Wife, il kolossal europeo con Léa Seydoux e Rubini che non convince

Di Andrea D'Addio

Inizi del ‘900: il capitano di lungo corso Jakob Störr scommette con l’amico Kodor che chiederà la mano alla prima donna che entrerà nel ristorante. La prescelta è una minuta ragazza francese. Aspetta un amico, ma lui, non demorde, prova a conquistarla e pone la fatidica domanda. Lei accetta. Inizia così una storia d’amore fatta di passioni e tormenti. Lui è spesso in viaggio, lei è irrequieta e sfuggente. Lo tradisce? I sospetti diventano sempre più grandi, la gelosia diventa paranoia, non c’è modo di conoscere la verità a meno che non si forzi la mano: se si sbagliasse però la perderebbe per sempre. E lui, per quanto incominci ad odiarla, si rende conto di non potere fare a meno di lei…

Tratto dall’omonimo romanzo del 1942 dell’ungherese Milán Füst (candidato anche al Nobel circa vent’anni dopo), The Story of My Wife è, a livello di dimensioni, un grande film: 169 minuti, 10 milioni di euro di budget (alto per un lavoro europeo) e un altro numero di Paesi produttivamente coinvolti, ben 5 (Ungheria, Germania, Francia, Malta e Italia, con la Rai). Ci sono attori da ogni parte del Vecchio Continente: protagonisti sono l’olandese Gijs Naber e la francese Léa Seydoux, mentre in ruoli di contorno troviamo gli italiani Sergio Rubini e Jasmine Trinca, la tedesca Luna Wedler e il francese Louis Garrel.  A dirigere il tutto è invece l’ungherese Ildikó Enyedi, Orso d’Oro 2017 a  Berlino per l’intimo, ben diverso come dimensioni del progetto, Corpo e Anima.

Insomma, un vero pot pourri di lingue e volti scelti forse più per esigenze da co-produzione che per reale convincimenti artistici (parlano tutti inglese anche se non è la prima lingua di nessuno) che contribuiscono a fare di The Story of My Wife un prodotto ottimo per la televisione, magari diviso in due appuntamenti, ma non per il cinema. Tantomeno è comprensibile la presentazione al Festival di Cannes, dove lo abbiamo visto, ma a volte cooperazioni di questo tipo trovano tante porte aperte al di là dei meriti artistici.

Diviso in sette capitoli, la storia gira e rigira intorno alla gelosia, dando solo un superficiale sguardo al contesto storico e rinunciando completamente a creare dei personaggi di spessore intorno a due protagonisti che, anche dopo quasi tre ore, ci appaiono quasi come sconosciuti. Da dove nasce la passione per il mare di Jakob? Quali sono le ragioni dietro gli ambigui comportamenti di Lizzy? Difficile immedesimarsi in uno di loro due, il livello di scrittura è a tratti analogo a quello di un anacronistico feuilleton.

Il riconosciuto talento di Ildikó Enyedi di lavorare con le sfumature dei sentimenti si perde in ripetizioni e lungaggine che diluiscono anche quei rari momenti in cui il tormentato rapporto dei duo di protagonisti sembra finalmente credibile.Tutto è così classico e statico che paradossalmente il finale, con quel pizzico di licenza onirica, fa uscire dalla sala un pochino più soddisfatti per l’esser rimasti seduti fino alla fine. 

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