La Ragazza di Stillwater: la recensione del film con Matt Damon

La Ragazza di Stillwater: la recensione del film con Matt Damon

Di Andrea D'Addio

Bill vive a Stillwater cittadina dell’Oklahoma, fa un po’ quel che capita, soprattutto nell’edilizia. Vive in una grande casa, da solo. Le sere sono sul divano con una birra accanto. È la provincia americana, ma pochi minuti dopo ecco il cambio di scena. Ecco la valigia, un aeroporto, il decollo e l’atterraggio. Siamo a Marsiglia. E lui è andato a trovare la figlia in prigione. È stata condannata per l’omicidio di una sua amica, ma lei si professa innoecente e gli lascia una lettera da consegnare al suo avvocato con dentro un indizio che potrebbe farla uscire di prigione. Al suo legale però il tutto non interessa più. Cosa fare? In Bill non ha mai creduto nessuno, neanche la figlia. È il momento del riscatto. Si mette lui a seguire la pista indicata dalla figlia. Ha bisogno però di giorni, settimane, forse mesi. Si stabilisce in Francia, fa la conoscenza di una madre single e si crea una sorta di equilibrio che persino negli States non aveva. La risoluzione del giallo però è dietro l’angolo….

Avete, se non nel finale, avuto la sensazione di aver già sentito questa storia? È così: i riferimenti al caso dell’omicidio di Meredith Kercher, per quanto mascherati dietro la diversa ambientazione, non l’Italia, ma la Francia, e in alcune svolte narrative, tra cui il finale, sono tanti e ricorrenti tanto che la stessa Knox ha recentemente scritto su Twitter, con l’hashtag #Stillwater: “Perché il mio nome si è legato ad eventi a cui non ho partecipato? Alcune personi continuano a trarre profitto dal mio nome, viso e storia senza il mio consenso”. Ciò non toglie che La ragazza di Stillwater sembra usi l’omicidio di una ragazza più come espediente per parlare di sacrifici e capacità di adattamento delle persone che per offrire una propria, credibile versione di ciò che accadde a Perugia.

Non poteva essere altrimenti: Tom McCarthy è un regista troppo valido, serio e capace per voler rincorrere il sensazionalismo. Il suo è un cinema solido, che va da A a B senza nessuna sbavatura, in grado di dividere perfettamente i tempi narrativi tra dramma e giallo. Lo avevamo visto in Spotlight, con cui vinse gli Oscar per film e regia, lo vediamo altrettanto chiaramente qui.

Non c’è dettaglio fuori posto, tutto è credibile e a suo modo avvincente. È, in definitiva, buon vecchio cinema americano, un po’ alla Eastwood, per intenderci. In questa storia di riscatto e affetti familiari viaggia, sotto traccia, il velato desiderio di raccontare anche volti e resilienza della classe operaia americana, quella della provincia, forse un po’ conservatrice, ma pragmatica, che crede nel fare più che in ogni altra cosa.

Un film così ben fatto non sarebbe stato possibile, al di là della bravura di Tom McCarthy (di cui vi consigliamo anche L’ospite inatteso e Mosse vincenti) senza la bravura di Matt Damon, da anni capace di impersonare al meglio l’uomo qualsiasi statunitense. Abbiamo bisogno di interpretazioni, e film, così.

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