Com’è bella l’avventura: la recensione di Jungle Cruise

Com’è bella l’avventura: la recensione di Jungle Cruise

Di Lorenzo Pedrazzi

Oggi tendiamo a dimenticarlo, ma c’è stato un tempo in cui trarre un film da un’attrazione di Disneyland sarebbe stato quantomeno peculiare. A legittimare questo tipo di operazioni fu l’enorme successo di Pirati dei Caraibi, che pure non si è ripetuto negli esperimenti successivi, La casa dei fantasmi e Tomorrowland: due potenziali franchise interrotti sul nascere, come molti altri degli anni Duemila. Nel caso di Jungle Cruise, però, sembra che la Casa di Topolino abbia trovato una formula più affidabile, anche in virtù di una solida tradizione cinematografica.

L’albero della vita

La genesi del progetto risale al 2004. All’epoca Disney puntava molto su questi adattamenti, ma il film ha attraversato numerose incarnazioni prima di concretizzarsi. Per la prima volta nella sua carriera, Jaume Collet-Serra si ritrova a gestire un prodotto family friendly, coadiuvato dallo star power di Dwayne Johnson come protagonista maschile e produttore. L’esito finale diverte perché, pur senza offrire nulla di clamoroso, amalgama l’intrattenimento per famiglie con il gusto per il raccapricciante del regista spagnolo, rievocando un cinema avventuroso che Hollywood non fa quasi più.

La trama si svolge durante la Prima Guerra Mondiale, quando la Dr.ssa Lily Houghton (Emily Blunt) si reca in Amazzonia col fratello McGregor (Jack Whitehall) per cercare un leggendario albero i cui fiori curano ogni male. Sulle loro tracce ci sono un perfido aristocratico tedesco (Jesse Plemons) e quattro antichi conquistadores che furono maledetti dalle popolazioni locali, e ora vivono in simbiosi col Rio delle Amazzoni. Per risalire il fiume, Lily e McGregor assoldano Frank Wolff (Johnson), capitano di una nave a vapore che raggira gli sprovveduti turisti americani.

Tra passato e presente

Si parlava di cinema avventuroso, e infatti Jungle Cruise prende alcuni spunti da vari film del passato, come La regina d’Africa (la crociera fluviale, l’ambientazione storica) e persino Mato grosso (l’Amazzonia, la ricerca di una cura miracolosa). L’umorismo, gli elementi fantasy e la sbornia digitale rimandano però a blockbuster più recenti, soprattutto La Mummia e lo stesso Pirati dei Caraibi. È proprio l’impianto visivo a garantire un certo spettacolo: i costumi di Paco Delgado e le scenografie di Jean-Vincent Puzos si integrano nel panorama lussureggiante della giungla, mentre la CGI dona una caratterizzazione intrigante agli antagonisti mostruosi (un po’ come accadeva nella saga dei Pirati, per intenderci). Collet-Serra non tralascia i risvolti macabri od orrorifici, e la pentalogia con Johnny Depp conferma di aver fatto scuola: prima di essa, i limiti del “rappresentabile” erano ben più ristretti nelle produzioni Disney.

La differenza, qui, è che tutto viene filtrato da una sensibilità contemporanea. La salvaguardia degli animali è prioritaria, gli stereotipi di genere tra fratello e sorella sono ribaltati, e McGregor è dichiaratamente gay. Fanno tenerezza le acrobazie verbali inventate dagli sceneggiatori per il suo coming out, senza che il personaggio dica in modo esplicito di essere attratto dagli uomini. Ma parliamo della Disney, una realtà fondamentalmente conservatrice, quindi non possiamo aspettarci dei cambiamenti troppo repentini: in quanto a trasparenza comunicativa, siamo giusto un gradino sopra al Le Fou de La Bella e la Bestia. Pian piano ci si arriva.

La strana coppia

Gran parte dell’umorismo è basato sul rapporto conflittuale tra la protagonista femminile e quello maschile, come in Alla ricerca della pietra verde e altre avventure romantiche. Non tutte le gag riescono col buco, ma Dwayne Johnson ed Emily Blunt formano una strana coppia che si nutre proprio delle rispettive differenze, sia fisiche sia caratteriali. Accade allora che, tra una battuta e una scazzottata, l’avvicinamento romantico si esprima nel fascino del cinema primitivo: Lily porta con sé una cinepresa dell’epoca, e alcuni brevi segmenti – quando i due personaggi si filmano a vicenda – riproducono l’estetica delle origini. È in quegli istanti di puro sguardo, granulosi e silenti, che Jungle Cruise pizzica le sue corde più delicate.

Ciò che ne deriva è un blockbuster con un cuore, non certo innovativo né particolarmente coraggioso, ma sincero e godibilissimo. D’altri tempi, sotto alcuni aspetti.

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