Fear Street – Parte 3: 1666 | La recensione del capitolo finale

Fear Street – Parte 3: 1666 | La recensione del capitolo finale

Di Lorenzo Pedrazzi

Fear Street – Parte 3: 1666 racchiude in sé tutte le peculiarità di questa trilogia, un progetto ibrido fra serialità e cinema che sintetizza molte caratteristiche dell’horror postmoderno. Dei tre capitoli, in effetti, 1666 è il più composito: gran parte della trama si svolge nel XVII secolo, ma è necessario tornare al presente dei personaggi – il 1994 – per sbrogliare l’intreccio. Ne risulta un film che accelera ulteriormente i cambi di tono e gli scarti di direzione, già molto concitati nei primi due episodi.

Leigh Janiak e i suoi sceneggiatori hanno impostato la trilogia come un percorso a ritroso: risalire alle radici di Shadyside e Sunnyvale è l’unico modo per svelarne i misteri, compiendo una ricerca meticolosa e progressiva. Conoscere il passato, insomma, è indispensabile per capire i nostri tempi, come Deena (Kiana Madeira) scopre in prima persona. A contatto con le ossa di Sarah Fier, la ragazza si ritrova proiettata nel 1666, e vive gli ultimi giorni di Sarah attraverso i suoi occhi. Questo dettaglio è fondamentale: la Storia coincide sempre col punto di vista dei vincitori, ma calarsi nello sguardo e nel corpo della presunta strega significa dare voce alla parte opposta, e disseppellire una verità a lungo negata. Sarah vive in un villaggio di coloni con il padre e il fratello Henry (Benjamin Flores Jr.), finché l’amore per la compaesana Hannah Miller (Olivia Scott Welch) non induce i fanatici del posto ad accusarle di stregoneria.

Il riciclo degli attori – qui nelle vesti dei propri antenati – giustifica un blindcasting che ha ben poca attinenza storica: una simile varietà etnica era infatti impensabile all’epoca, e rievoca il noto caso di Bridgerton (peraltro sempre su Netflix). Certo, in questo caso la scelta potrebbe essere motivata dalla sovrapposizione degli sguardi: noi vediamo tutto attraverso gli occhi di Deena, che quindi filtra la realtà con le sue esperienze. È per questo che il fratello di Sarah ha le sembianze di Josh, e che Hannah ha il volto di Sam. Comunque la si voglia interpretare, è chiaro che Fear Street – Parte 3: 1666 non ambisce alla fedeltà storica, e infatti le relazioni tra i personaggi hanno un piglio fin troppo “contemporaneo” (come il linguaggio utilizzato, fatti salvi gli accenti e qualche espressione arcaica stereotipata). Janiak pedina la protagonista e lascia spazio ai paesaggi naturali, usando spesso la camera a spalla per inquadrare le interazioni fisiche e sociali: siamo dalle parti del folk horror, certo, ma la regista ha in mente anche The New World di Terrence Malick, per sua stessa ammissione.

I momenti più efficaci sono quelli più turpi, dove Janiak dimostra ancora una volta di avere la mano sicura sul gore. Al contempo, però, riesce a toccare corde più intime e viscerali nella storia d’amore fra le due ragazze, di cui si sente maggiormente l’esigenza rispetto al primo capitolo. A guadagnarne è il pathos, che poi sfocia nell’inevitabile salto temporale. Questo terzo episodio, infatti, è come due film in uno: si deve tornare al 1994 per chiudere la storia. E allora, ecco di nuovo i codici del teen horror, con le sue ambientazioni suburbane (il centro commerciale) e le vernici luminescenti che rimandano agli anni Novanta. Per non parlare dei Super Soaker, che in in Italia si chiamavano Super Liquidator: i feticci dell’epoca hanno un ruolo determinante, pur senza essere invasivi.

Alla fine ci si diverte, e si scopre che persino Fear Street può nascondere il metaforone. Niente di forzato, però: in una nazione dilaniata dalle disuguaglianze sociali, l’idea che una città di borghesi bianchi prosperi ai danni di una working class multietnica non ha nulla di artificioso, ma è la fotografia di una realtà concreta, quotidiana. I generi servono anche a esorcizzare i mali del mondo, hanno un occhio di lince sulle ingiustizie sociali, e l’horror è sempre stato uno strumento prezioso per elaborare i conflitti del suo tempo. Persino una trilogia come questa, con il suo approccio giocoso e parossistico, fa il proprio dovere: parla l’idioma del suo target ideale, contamina i linguaggi, trova un equilibrio affidabile tra melò e orrore. L’esperimento può dirsi riuscito, soprattutto in rapporto alla sua unicità.

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