Benedetta – La recensione del film di Paul Verhoeven

Benedetta – La recensione del film di Paul Verhoeven

Di Andrea D'Addio

In provincia di Pistoia, a Pescia, intorno al 1621 la trentenne Benedetta Carlini divenne badessa del convento in cui i genitori l’avevano portata ancora bambina. Fin da bambina aveva avuto visioni mistiche, da qualche tempo però diversi fatti inspiegabili attorno alla sua figura era stati osservati dalle suore e dalla comunità del paesino. Vere o false che fossero, la Chiesa di Roma decise di andare a controllare. Lo scalpore che si creò però subito dopo non riguardò tanto sul suo essere, o meno, destinataria di un messaggio divino quanto per la sua relazione con una delle sorelle. Questa è la storia vera, almeno secondo quanto narrato, dopo lunghe ricerche, da Judith C. Brown in un saggio del 1987 dal titolo Atti Impuri, vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento. Se parliamo di film, la rilettura che del tutto dà Paul Verhoeven con Benedetta, appena presentato al Festival di Cannes, è un mix tra commedia, dramma, erotico e grottesco, un pot pourri che ha nella salda visione del regista olandese il suo, affascinante, fil rouge.

A 83 anni Verhoeven continua a non essere mai banale, né nelle storie che decide di raccontare, né nel come. Con lui tutto viaggia sul filo dell’ironia, si ha sempre la percezione che sia tutta una messa in scena fatta ad uso e consumo dell’intrattenimento dello spettatore, come se ci si trovasse a teatro e ogni tanto gli si strizzasse l’occhio. Esagerare è la parola d’ordine. Che sia una statuina della Madonna trasformata in strumento di piacere femminile o una visione in cui Gesù non solo è un combattente, ma decapita le persone, le immagini, anche quando hanno sottotesti, sono potenti, scuotono, devono far strabuzzare gli occhi dello spettatore. Non è importante stabilire cosa sia davvero successo, se Benedetta fosse in contatto con Dio, ciò che conta è porre l’accento sulla continuità tra sacro e profano e sulle ambiguità della vita in generale.

Come già in molti dei suoi migliori lavori passati (Robocop, Atto di Forza, Basic Instinct), Verhoeven mette al centro del suo sguardo i corpi dei suoi protagonisti: pulsioni, mutazioni, mutilazioni. Qui sono quelli di Virginie Efira e Daphne Patakia. Subiscono punizioni tremende, bruciature, frustate, pugni tanto quanto è intenso il sesso che le vede coinvolte, come se si cercasse un ironico equilibrio cosmico. Sono spunti di riflessione, nulla più, ma è questa la bellezza di film come questi: ti divertono e ti portano a pensare, senza darti nessun messaggio preconfezionati.

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