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Oxygène: la recensione del thriller sci-fi Netflix con Mélanie Laurent

Pubblicato il 12 maggio 2021 di Marco Triolo

Buried, Locke, 127 ore, Il colpevole, Paradise Beach. La storia del cinema – specialmente quella recente – è piena di film con un’ambientazione unica e claustrofobica, con la macchina da presa attaccata alla faccia dei protagonisti per tutta la durata. Delle prove di forza che puntano ai nervi e che, nei migliori casi, creano un’angoscia palpabile senza usare grandi effetti o trucchi. Il trucco è uno solo, ed è appunto quello alla base di tutto il film.

In America li chiamano “gimmick”, quel tipo di trucchetti che sperano di bastare per rendere un film interessante. Spoiler alert: non bastano mai. A rendere un film interessante non è mai un trucchetto: è COME quel trucchetto viene utilizzato. Anzi, è più probabile che spogliare totalmente un film di tutte le caratteristiche che normalmente lo possono salvare – movimenti di macchina, grandi set, ambientazioni varie e cast più o meno numerosi – per andarsi a infilare volontariamente in una buca, finisca per essere un limite più che un vantaggio. Insomma, per fare un film con un solo protagonista che, chiuso in una bara o quant’altro, passa un’ora e mezza a telefonare per cercare aiuto, devi essere bravo. Altrimenti rischi solo di annoiare.

Alexandre Aja di certo non è l’ultimo arrivato e nel suo curriculum ha persino un film che si intitola letteralmente Alta tensione. Eppure, con Oxygène, il suo ultimo thriller sci-fi approdato direttamente su Netflix, fatica proprio a tenere alta la tensione per tutta la durata.

La trama di Oxygène

La premessa è sempre la solita: una donna (Mélanie Laurent) si risveglia in una cabina criogenica che assomiglia paurosamente a una bara. Non avrebbe dovuto svegliarsi – se era ibernata c’era una ragione – e lei non ricorda neppure il suo nome e come sia finita lì. La “bara” è dotata di una comoda intelligenza artificiale (voce di Mathieu Amalric) a cui la donna può porre domande per capire come uscire da lì. C’è un grosso problema, però: l’ossigeno è al 36% e la donna ha poco tempo per trovare una via d’uscita. A poco a poco seguirà una serie di indizi fino a scoprire la sconvolgente verità dietro la sua prigionia, che la costringerà a mettere in discussione tutto quello che sa.

Oxygène azzecca diverse cose. L’inizio, ad esempio, con il risveglio della protagonista, è un grande esercizio di tensione e angoscia. Tutta la prima parte del film procede a grandi balzi mentre la protagonista fa i primi tentativi per risolvere l’enigma in cui si ritrova incastrata. Poi, però, quando iniziano le vere rivelazioni, e il film dovrebbe ingranare la quinta per correre verso il finale, paradossalmente Aja tira il freno a mano. Il ritmo si allenta di pari passo con l’ingigantirsi dei twist narrativi, in maniera inversamente proporzionale. Tanto che, quando arrivano le vere bombe atomiche, sono raccontate quasi con distacco. Come se Aja stesso non credesse nella bontà del materiale che si ritrova per le mani (la sceneggiatura è di Christie LeBlanc). Che invece è potenzialmente buono.

Quando 100 minuti sono troppi

Ne esce un film che dura un’ora e quaranta e sembra durarne almeno due. Puntellato, nel secondo e terzo atto, di punti morti che vi faranno guardare la barra di Netflix con gli occhi increduli di chi pensava che mancasse poco alla fine, non certo QUARANTA minuti. E invece.

Mélanie Laurent dà un’interpretazione professionale e il più delle volte convincente, a parte quando si lascia andare a crisi di panico troppo “cinematografiche” per risultare credibili. Ma non è facile reggere da sola il peso di un film intero, e Laurent ci riesce indubbiamente. Con una durata un po’ più ridotta – e fa specie dirlo di un film di 100 minuti! – e un secondo e terzo atto più limati, forse Oxygène avrebbe potuto essere un’esperienza molto più snervante e travolgente. Così è solamente uno svago che annacqua degli ottimi spunti in una struttura troppo risaputa, senza aggiungere mai nulla di memorabile.