Love, Death & Robots, la seconda stagione

Love, Death & Robots, la seconda stagione

Di DocManhattan

Potremmo partire da lontanissimo, e ricordare che il formato antologico è vecchio quanto la storia della TV, e che in quel genere un uomo come Rod Serling si è fatto le ossa e ha potuto portare al successo il suo Ai confini della realtà, nell’ormai remoto 1959. Oppure potremmo più semplicemente spiegare a chi non lo sapesse che Love, Death & Robots è una serie Netflix che ha debuttato due anni fa, con 18 brevi episodi, tutti della durata inferiore al quarto d’ora, realizzati da vari team d’animazione. Tema comune, la fantascienza (e in particolare, ma non sempre, quella robotica), in un tentativo, operato dai produttori Tim Miller e David Fincher, di re-immaginare un contenitore di fantascienza animata in stile Heavy Metal. Cioè, in pratica, la trasposizione su piattaforma, sotto forma di show, di quel vecchio progetto dello stesso Fincher, mai andato in porto, proprio di un altro film come Heavy Metal (1981).

A distanza di due anni e spicci, Love, Death & Robots torna su Netflix con una stagione 2 decisamente più compatta, composta com’è di soli 8 episodi. Tanto che si fa presto, prima di fare un discorso generale su questo secondo lotto di storie di amore, morte e robot, a spendere due parole su ognuno dei corti inclusi. “Servizio Clienti Automatico” (“Automated Customer Service”), di Atoll Studio, è l’adattamento di un racconto pubblicato da John Scalzi (l’autore di “Uomini in rosso”) sul suo blog nel 2018. In una società popolata solo da anziani sonnacchiosi cullati e coccolati dalle macchine, cioè l’ambientazione perfetta per una rivolta robot, una combattiva vecchina e il suo cane si trovano in effetti alle prese con un aspirapolvere assassino.

Più classicone da Twilight Zone di così si muore, ma finale gradevole, anche grazie al modo in cui si sposa alla musica di Rob Cairns. Fermo restando che mia nonna quel coso l’avrebbe scassato in tempo zero con il battipanni o anche solo armata di ciabatta, e ciao rivolta delle macchine.

love death robots 2

FRATELLI E CORPI IMMORTALI

“Ghiaccio” (“Ice”, di Passion Animation Studios) ci porta invece su un gelido pianeta colonia, il solito buco d’inferno per minatori che hanno sbagliato tutto e si sono lasciati fregare da un volantino per le colonie extramondo. Solo che qui le nuove generazioni sono modificate geneticamente e due fratelli – uno dei quali è uno dei pochi soggetti non modificati in circolazione, e perciò bullizzato da tutti – e una banda di coetanei si lanciano in una sfida mortale. Lo stile visivo è molto interessante, e i giovanotti di Passion sono, non a caso, gli artefici di uno degli episodi più intriganti da questo punto di vista nella prima stagione (“Zima Blue”)… oltre che noti per i video dei Gorillaz. La storia corre su una lastra di ghiaccio sottile, in più di un senso, perché in dieci minuti non è semplice rendere interessanti questi tizi che non hai mai visto prima, ma nel complesso fa il suo, quanto meno nell’apparecchiare le soluzioni visive efficaci di cui sopra. Se siete curiosi, questo è il racconto originale omonimo (di Rich Larson) da cui è nato l’episodio.

“Pop Squad” è uno dei tre episodi di questa seconda tornata di Love, Death & Robots realizzati da Blur Studio, con quella grafica da cutscene di uno sparatutto di nuova generazione. E infatti è un team che ha lavorato anche alle sequenze cinematiche delle serie di Halo e Batman: Arkham, per Call of Duty eccetera eccetera, e che ora è all’opera sull’adattamento di The Goon… sempre con David Fincher come produttore. La ragione è molto semplice: Blur Studio è stato co-fondato da Tim Miller, tra i creatori, con lo stesso Fincher, di Love, Death & Robots. Fine dello spiegone, torniamo a “Pop Squad”. Si respira aria, oltre ovviamente che di Blade Runner, di distopia superclassica, ricchi immortali nel loro clubbino tra le nuvole VS poveri straccioni che credono nella vita e come osano, con i primi che ammazzano i secondi come cani. C’è un momento bello forte, all’inizio, ma manca quello che manca in tanti episodi di Love, Death & Robots, nonostante sia da sempre un ingrediente classico delle produzioni antologiche sci-fi o più in generale dei racconti brevi di matrice fantastica: il colpo di scena. E senza, una storia di dieci minuti magari intrattiene, ma lascia poco. Non vi ha insegnato niente, Ai confini della realtà, giovanotti? L’autore del racconto da cui l’episodio è nato è lo statunitense Paolo Bacigalupi (quello del romanzo biopunk “La ragazza meccanica”). “Pop Squad” è stato scritto nel 2006, e due anni dopo è stato inserito nella raccolta “Pump Six and Other Stories”.

love death robots 2 -

PIÙ VERO DEL VERO

La lezione sul colpo di coda, invece, sembra averla assimilata “Snow nel deserto”, di Unit Image, adattato da una storia dell’inglese Neal Asher del 2008. Storia di cacciatori di taglie in una Tatooine più feroce e ancora più bruciata dal sole dell’originale. Per farla breve, quello messo in piedi da Unit Image è uno degli esempi di CGI fotorealistica più pazzeschi che abbia visto. In molte scene si fatica a ricordare che quelli non sono veri attori, ma persone vere – come Peter Franzén di Vikings e Zita Hanrot di Fatima – traslate in un mondo digitale da dei maghi della computer graphic. L’ho già detto che è una roba pazzesca? L’ho già detto. Con Tim Miller, i tipi di Unit Image hanno già lavorato agli effetti speciali di Terminator – Destino oscuro.

“L’erba alta” (“The Tall Grass”) ha dei volti che sembrano scolpiti nel legno e animazioni che sembrano in stop motion. Più che nella fantascienza, questo breve episodio si aggira dal primo istante dalle parti dell’horror alla Joe R. Lansdale… e non è un caso: è la trasposizione del suo racconto omonimo (contenuto in The Tall Grass and Other Stories, 2014). “Era la notte prima di Natale (“All Through the House”) è, con i suoi cinque minuti scarsi, l’episodio più breve del lotto: e se Babbo Natale esistesse davvero, ma non fosse quello che ci aspettiamo? Simpatiche la citazioni da una celebre saga di mostri dello spazio, diciamo, e magari “simpatico” è proprio l’aggettivo che spenderei per l’episodio in sé, qualora dovessi sceglierne solo uno.

MICHAEL B. JORDAN E IL GIGANTE

Gli altri due episodi sono sempre firmati da Blur Studio. “La cabina di sopravvivenza” (“Life Hutch”) è nato dalla fantasia di un altro celebre narratore del fantastico, Harlan Ellison, nel 1956. Spara in una bruttissima situazione Michael B. Jordan, e si torna alla sfida uomo-macchina (ma senza pensionati). E cavolo se ti fa venire voglia, con quelle scene nello spazio, di una serie tutta così. Mi manca BSG? Tanto. Infine “Il gigante affogato” (“The Drowned Giant”), dalla storia breve omonima di un altro gigante della fantascienza, J. G. Ballard, l’antesignano del cyberpunk. Qui il corpo nudo di un gigante viene ritrovato su una spiaggia, e diventa in breve meta per turisti, sfondo da selfie, un prodotto da vendere. Sarebbe inquietante, non fosse che – gigante a parte – il tutto è fin troppo reale, e questo lo rende un corto significativo. Certo, poi chi quelle cose le fa, davanti alla prima tragedia di cui ha parlato la TV, è facile non si renda conto della cosa: mi si vede bene in questa foto davanti al luogo in cui sono crepate delle persone? Sì? Ne facciamo un’altra? Grandissimo, il finale. E qui, se parli di cazzata, resti nei confini della sinossi.

Tirando le somme, pochi robot (ma chi se ne frega) di questo Love, Death & Robots 2, tanti nomi di rilievo per quanto riguarda il materiale originale, alcune soluzioni visivamente notevoli (e una notevolissima, più che dal punto di vista artistico da quello del progresso tecnologico puro), un mix di fantascienza classica e storie più in generale fantastiche che, con qualche colpo di scena finale in più, avrebbero reso probabilmente meglio. Ma, come per la prima stagione, credo personalmente che il risultato complessivo sia migliore della somma delle singole parti. In altre parole, che il tutto merita una visione, anche se non ogni singola componente alla fine funziona. Certo è che serie antologiche così ne vorrei vedere tante, sempre. Tanto più in questo mondo triste che Black Mirror l’ha ormai superato e lasciato alle spalle.

 

 

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