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Non capita spesso che il cinema italiano racconti la storia di un grande campione. Al contrario della nostra musica leggera, storicamente abilissima nel celebrare la mitologia dello sport, il cinema italiano ha sempre privilegiato uno sguardo sornione e demistificante, sfociando nell’umorismo crasso e nella parodia del tifoso. Il Divin Codino si trova quindi nella difficile situazione di dover cercare una nuova grammatica espressiva, ma fallisce proprio in questo delicatissimo frangente: la carriera di Roberto Baggio, ridotta al solito quadro intimista, smarrisce quell’iconica solennità che dovrebbe caratterizzare il suo intero percorso, e che la regista Letizia Lamartire tratta come una nota a piè di pagina.
Non è un caso che Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo guardino a un modello straniero per la sceneggiatura. Come lo Steve Jobs di Aron Sorkin e Danny Boyle, da loro citato nella conferenza stampa, anche Il Divin Codino struttura il proprio biopic su tre momenti fondamentali nella vita del protagonista: il passaggio dal Lanerossi Vicenza alla Fiorentina, esordio di Baggio in serie A; il famigerato Mondiale del ’94, culminato nel rigore sbagliato contro il Brasile; e il glorioso tramonto nel Brescia, quando Baggio fa di tutto per convincere Trapattoni a portarlo in Corea e Giappone. In mezzo troviamo la sua conversione al buddismo, il rapporto con il padre, il supporto costante della moglie Andreina e i numerosi infortuni, sempre nei momenti decisivi.
L’intento è chiaro: raccontare il privato del fuoriclasse veneto e i lati nascosti della sua storia, quelli che il pubblico non conosce. Le grandi ellissi temporali hanno effettivamente qualcosa in comune con Steve Jobs, dove però i tre eventi erano racchiusi nelle unità di luogo, tempo e azione, oltre a essere arricchiti dai dialoghi brillanti di Sorkin. Il Divin Codino pretende invece di concentrarsi su tre fasi della vita di Roberto Baggio (molto ampie, non delimitate da un singolo spazio o avvenimento) per farne la sineddoche di un’intera carriera, senza intensità né compattezza, a parte qualche rara circostanza. Il punto è che, nel caso di Baggio, non si può scindere l’uomo dal mito, poiché sono la stessa cosa: omettere dalla sua biografia le grandi imprese con i club, i discussi cambi di maglia e il suo rapporto con i tifosi equivale a impoverirne la figura, dando inoltre per scontati troppi dettagli fondamentali (errore madornale per una produzione targata Netflix, che distribuirà il film ai quattro angoli del globo). Baggio ha sublimato sé stesso in un simbolo trascendente, come qualunque altro mito dell’immaginario collettivo, eppure il film di Lamartire dimentica di raccontarci come e perché sia successo. 90 minuti bastavano al fuoriclasse di Caldogno per entrare nella Storia, ma non sono sufficienti per sintetizzarne le gesta in un biopic: molti passaggi suonano affrettati (come la rinascita del Codino agli ottavi dei Mondiali) nella sceneggiatura di Rampoldi e Sardo, che si affidano troppo ai dialoghi per comunicare la propria interpretazione della storia, imboccando il pubblico invece di farlo ragionare.
Esemplare, in tal senso, è come viene trattato il rapporto tra Baggio e Arrigo Sacchi. L’ex CT diventa il paradigma di tutti gli allenatori con cui ha avuto dei contrasti, ma viene sostanzialmente ridotto ad antagonista dell’eroe buono, nonché “doppio” del padre-padrone. I parallelismi “allenatore/padre” e “squadra/fratelli” sono quantomeno banali, e non giustificano una tale focalizzazione intimista a scapito dell’epica sportiva. Il film non valorizza la grandezza del campione, ma finisce per marginalizzarne le prodezze, escludendo tutto il contesto bizzarro e caotico dell’universo calcistico. È un peccato, perché Il Divin Codino trova in Andrea Arcangeli un credibilissimo Roberto Baggio, capace di somatizzarne la personalità schiva e il portamento introverso. Tutto il resto ha però qualcosa di artefatto, come la simbologia di quell’albero “troppo vecchio per dare frutti” che Baggio vuole abbattere dopo la mancata convocazione al Mondiale del 2002.
È una sensazione ricorrente nelle produzioni italiane di Netflix, e non solo: troppo “scritte”, freddamente cerebrali, si sforzano di trasmettere a parole ciò che dovrebbe emergere dalle immagini, dal montaggio, dalle attese e dai silenzi. Oppure, nel caso di un eroe sportivo, dalle gesta straordinarie che lo elevano ben oltre i limiti umani, e che dialogano con la vita privata in un rapporto di influenza reciproca. Purtroppo, Il Divin Codino non ha nulla di tutto questo.