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Trent’anni di Hannibal Lecter: Il silenzio degli innocenti e Hannibal a confronto

Pubblicato il 14 febbraio 2021 di Marco Triolo

Il 14 febbraio di trent’anni fa usciva Il silenzio degli innocenti (da noi sarebbe arrivato il 5 marzo). Il 9 febbraio di dieci anni dopo, cioè vent’anni fa, usciva invece Hannibal. Due film che hanno regalato ad Anthony Hopkins il ruolo della vita, anche se quel tipo di ruolo da cui non ci si separa mai più nell’immaginario collettivo. Sir Anthony, per molti, è e sarà sempre Hannibal “The Cannibal” Lecter, il serial killer nato dalla mente di Thomas Harris e diventato una figura abituale al cinema e in TV.

Oggi lo associamo anche a Mads Mikkelsen, grazie alla serie Hannibal che, per quanto mai benedetta da un successo all’altezza della sua qualità, ha la sua schiera di fedelissimi. Ma fino al 2013 non c’era storia: con buona pace del povero Brian Cox, che interpretò Lecter (anzi, “Lecktor”) in Manhunter di Michael Mann (un capolavoro, andatelo a ripescare), Hopkins ERA Lecter.

Il silenzio degli innocenti e Hannibal sono due film diversissimi, sia per quello che raccontano che per come lo fanno. Diversissimi anche in qualità: da un lato uno dei migliori thriller di sempre, teso, disturbante, magistralmente interpretato e scritto. Dall’altra una delle regie più “alimentari” di Ridley Scott, che, nonostante l’apporto di due sceneggiatori “aristocratici” come David Mamet e Steven Zaillian, non riesce mai a scrollarsi di dosso l’aura del fratello minore e una goffaggine che sfocia nel ridicolo involontario in diversi punti.

Hannibal è quello che succede quando una ricetta perfettamente calibrata viene sbilanciata in favore dell’ingrediente che tutti sembrano preferire. Succede spesso nelle serie TV: pensiamo a The Big Bang Theory, dove a un certo punto gli autori hanno deciso che Sheldon Cooper doveva essere il protagonista assoluto perché piaceva agli spettatori, rovinando un po’ la formula corale della serie. È naturale: parliamo di cinema e televisione commerciali, si tenta di puntare al minimo comune denominatore.

Il silenzio degli innocenti: che cos’è

Il silenzio degli innocenti, rivisto oggi, non fa più così paura e non è più scioccante come allora, bisogna ammetterlo. Oggi, e mi tocca tirare in ballo ancora una volta la televisione, le serie hanno sdoganato un tipo di rappresentazione esplicita della violenza legata a una scrittura profonda e complessa. Virare sul gore non è più considerato uno specchietto per le allodole, un trucchetto per nascondere le falle nella scrittura (non lo è mai stato, ma lo era considerato), né al cinema né in TV.

Ma allora era molto raro che lo facesse una produzione “di lusso”. In genere, i film sui serial killer erano gli slasher, come Halloween, Venerdì 13 e simili. Diventavano spesso enormi successi e di alcuni possiamo oggi dire che sono capolavori, ma erano pur sempre “film di genere”, exploitation, roba da drive-in, nella concezione comune. Il film di Jonathan Demme invece fece scivolare con nonchalance il linguaggio dell’horror in una produzione a budget elevato (19 milioni di dollari), tratta da un best-seller e interpretata da attori di grande calibro. Uno schiaffo in faccia ai colorati e spensierati anni ’80 che finì per vincere i cinque Oscar principali: miglior film, regia, attore protagonista, attrice protagonista e sceneggiatura non originale.

Il silenzio degli innocenti picchia duro dove gli serve, si trattiene dove invece preferisce creare tensione e atmosfera. Impiega tutte le armi dell’horror e del thriller psicologico per scavare a fondo in due personalità affascinanti. Non è un caso che sia diventato poi materiale per una serie TV, dove i personaggi la fanno da padroni.

Il silenzio degli innocenti: cosa NON è

Il film di Demme è tante cose: un thriller su un serial killer, uno studio di personaggi, una seduta di psicanalisi, un horror psicologico, una strana storia di amicizia. Diciamo allora che cosa non è: non è un procedural. È strano, rivedendolo oggi, accorgersi di questo. A Demme, e allo sceneggiatore Ted Tally (che sarebbe poi tornato a scrivere il prequel Red Dragon), interessa poco l’indagine su Buffalo Bill in sé. La svolta arriva quasi fuori schermo: con una telefonata, Jack Crawford avvisa Clarice Starling che hanno scoperto l’identità del killer. L’indagine è presentata quasi come ordinaria amministrazione, tanto per sottolineare quanto il male sia banale. Oggi siamo circondati da serial killer fittizi sempre più elaborati e da detection sempre più intricate e contorte. Ma il lavoro degli investigatori nella vita reale è fatto spesso di riscontri banali alla luce di una lampada da ufficio.

Altra cosa evidente: Lecter NON è il protagonista, nonostante l’Academy lo abbia ritenuto tale. Clarice Starling lo è. Demme e Tally affondano nella psiche dell’aspirante agente FBI con grande gusto, le immagini evocate degli agnelli che gridano sono potenti e inquietanti. Il suo calvario nella casa di Buffalo Bill è da tachicardia, un finale straordinario e molto più appassionante dell’evasione di Lecter. Ed è uno dei migliori usi di un vecchio trucco del cinema, quello dell’irruzione simultanea in due luoghi diversi che inizialmente sembrano uno solo.

Ne Il silenzio degli innocenti, il buon dottore è un comprimario, un mezzo per far risaltare ancora di più la centralità di Clarice. In Hannibal le parti si sarebbero invertite: Lecter, re-immaginato come una sorta di anti-eroe, sarebbe diventato il vero protagonista, Clarice una comprimaria, una principessa da salvare. E per fortuna che si decise di non usare il finale del romanzo di Thomas Harris – in cui Clarice diventa cannibale a sua volta e fugge insieme all’amato Hannibal – perché altrimenti un personaggio così interessante sarebbe stato ridotto a psicopatica con la sindrome di Stoccolma.

Il cast

Tornando a Il silenzio degli innocenti, non è possibile ignorare l’apporto di due attori di grande caratura come Hopkins e Jodie Foster. Quest’ultima subentrò a Michelle Pfeiffer, che decise di lasciare il ruolo perché aveva paura che il film fosse troppo violento. Per Lecter invece Demme aveva pensato inizialmente a Sean Connery. Gene Hackman avrebbe dovuto dirigere il film, ma si era riservato il ruolo di Crawford, che poi sarebbe andato a Scott Glenn.

Tra Hopkins e Foster si instaura subito un’alchimia pazzesca nel film. Di recente Hopkins ha rivelato alla sua co-star che, all’epoca, aveva una certa strizza all’idea di lavorare con lei, perché la rispettava enormemente. All’epoca delle riprese, Anthony Hopkins aveva 52 anni. Jodie Foster ne aveva 27, ma già praticamente vent’anni di carriera alle spalle. Solo una decina in meno del collega. Da questo incontro è nata una delle coppie più memorabili del cinema americano, e infatti un altro grosso problema del sequel è che a Dino De Laurentiis toccò riscritturare Clarice. Jodie Foster rifiutò, e più avanti avrebbe rivelato che il testo, secondo lei, tradiva il personaggio che tanto lei quanto Demme avevano amato.

Un thriller da cartolina

Come darle torto? Poco importa che il controverso finale del romanzo fosse stato eliminato in favore di uno più canonico. Poteva andarci molto peggio di Julianne Moore, ma ciò non toglie che Clarice sia gravemente sotto-sfruttata. Una figura marginale che praticamente non ha alcun peso nell’evolversi delle vicende. Una voce telefonica che cerca di avvertire l’ispettore Pazzi (Giancarlo Giannini) di non giocare con il fuoco, ma non viene mai ascoltata. Quando finalmente entra in azione, nel terzo atto del film, ha un secondo per brillare e poi i riflettori tornano tutti su Hannibal.

Ridley Scott baratta il rigore dell’originale per un melodramma di cattivo gusto, un film costruito su stereotipi (la Firenze da cartolina, i personaggi fortemente compressi in archetipi) dove l’originale quegli stereotipi li aveva sfidati e addirittura ne aveva lanciati di nuovi come tutti gli apripista fanno. Un film che cerca di farsi grande citando Dante e il Rinascimento. Ma sono vuote parole sorrette qua e là da una scena ad effetto (la morte di Pazzi, impiccato, sbudellato e gettato da Palazzo Vecchio, non è male).

Ted Tally sarebbe tornato, come dicevamo, a scrivere Red Dragon, nato con il solo scopo di rifare Manhunter con Anthony Hopkins nel ruolo di Lecter. Un compito improbo, ma svolto con sufficiente professionalità, e decisamente un film migliore rispetto a Hannibal. Ma di Silenzio degli innocenti ce n’è solo uno.