Abusato dal marketing e dal populismo, il concetto di caring (“prendersi cura”) si è deteriorato in una retorica nociva, che spesso esprime un’ideologia paternalista: le grandi aziende lo trattano come una concessione dall’alto – pensiamo allo slogan sharing is caring – e lo piazzano al centro delle strategie pubblicitarie, mentre gli stati dimenticano i propri doveri assistenziali e lasciano tali iniziative in mano ai privati. È una retorica che genera mostri, come abbiamo visto nella docu-serie SanPa.
I Care a Lot gioca con questo fenomeno sin dal titolo, preannunciando quell’ironica malizia che attraverserà tutto il film. Lo ripete continuamente il personaggio di Rosamund Pike, Marla Grayson, in una delle prime scene: «All day, every day, I care». La sua professione consiste nel fare da tutore legale alle persone che non possono badare a loro stesse, ma Marla sfrutta il sistema a suo vantaggio. Con la complicità di una dottoressa, si fa affidare da un giudice la cura di numerosi anziani, a cui sottrae le proprietà mentre vengono rinchiusi in un lussuoso ospizio. Lei e la sua assistente Fran (Eiza González) pensano di aver trovato la gallina dalle uova d’oro quando fanno ricoverare Jennifer Peterson (Dianne Wiest), una ricca donna sola, salvo ritrovarsi nei guai: Jennifer è infatti la madre di un potente boss della mafia russa, Roman Lunyov (Peter Dinklage), che è determinato a liberarla con ogni mezzo.
L’impostazione è quella di un thriller convenzionale, ma il regista J Blakeson sfida la morale del pubblico: lo scontro si consuma infatti tra due oppressori senza scrupoli, e lo stesso Roman, pur essendo teoricamente nel giusto, ha le mani troppo sporche di sangue per attirare l’empatia degli spettatori. Non è un caso, in tal senso, che Blakeson ci riveli i suoi orribili traffici fin dal principio. I Care a Lot è una storia senza eroi né eroine, un dualismo tra carnefici che evidenzia come gli Stati Uniti – e il capitalismo neoliberista su cui si basano – traggano origine dalla sopraffazione. Marla insegue una versione distorta del Sogno Americano, frutto del disincanto rispetto a una società iniqua: per emergere, deve comportarsi da predatrice. Con queste premesse (e considerando il clima politico-sociale post MeToo), non c’è da stupirsi che il dualismo sia anche tra maschile e femminile. Una lotta impari, dove i privilegi del maschile sono incarnati dal potere di Roman, ma che diventa più equilibrata grazie all’astuzia di Marla, donna costretta a sacrificare i tratti stereotipati della femminilità per vincere la concorrenza.
Rosamund Pike, in effetti, si ritrova per l’ennesima volta nel ruolo della regina dei ghiacci, insensibile, altera e calcolatrice. Una figura quasi androgina che si nasconde dietro alla retorica della “cura” (tipica del femminile, soprattutto nella visione patriarcale) per sovvertirla dall’interno. Blakeson lavora però anche su altri livelli di retorica, come quella dell’empowerment tipica di certo femminismo essenzialista, e li ribalta in una visione cinica, forse tristemente lucida. La sua sceneggiatura ha un andamento circolare, non solo per il coup de théâtre che chiude il film, ma anche perché il successo di Marla ritorna paradossalmente alla sfera maschile: è un potere ceduto, più che conquistato.
Sono proprio i risvolti sociali e i sottotesti culturali a rendere interessante I Care a Lot, non tanto l’intreccio in sé. Alcuni snodi narrativi sono poco verosimili (non si è mai visto un clan malavitoso più inetto di quello di Roman), e la regia scolastica di Blakeson tende a banalizzare le scene cruciali. In compenso, ha il merito di valorizzare la durezza di Rosamund Pike e la rabbia trattenuta di Peter Dinklage, ottima coppia di interpreti che si sfidano a distanza e si compensano a vicenda. Il dualismo è anche di natura attoriale, e funziona.
L’uscita di I Care a Lot è attesa per venerdì 19 febbraio su Amazon Prime Video.