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WandaVision, il trucco e l’inganno nella prima serie dei Marvel Studios

Pubblicato il 15 gennaio 2021 di Lorenzo Pedrazzi

Vedere la premiere di WandaVision su Disney+ è come rientrare nel Marvel Cinematic Universe dalla porta di servizio. Non è un male, sia chiaro: dopo la sbornia di Avengers: Endgame, la Fase 4 parte in modo ambiguo e sottile, lasciando che la polvere si posi sul terreno prima di far esplodere un nuovo delirio spettacolare. Di fatto, la prima serie dei Marvel Studios inquadra il racconto supereroistico da un’angolazione diversa, dimostrando come questo “genere” abbia ancora qualcosa da dire sul piccolo schermo, e che in ambito mainstream sia ancora possibile ribaltarne i cliché. Anche al costo di sfociare in territorio metanarrativo, campo minato che richiede molta arguzia per superarne le insidie.

Tutta una farsa

C’è una scena del secondo episodio in cui la barriera tra realtà e illusione si fa talmente sottile da rischiare il collasso. Wanda Maximoff e Visione stanno preparando un numero di illusionismo per il talent show di Westview, e il gioviale androide, dopo aver fatto “sparire” Wanda in un armadio, si chiede se il pubblico capirà il trucco. «Non ti preoccupa che il pubblico possa scoprire che è tutta una farsa?» domanda alla moglie, che risponde: «È proprio questo il punto! Nella vera magia, tutto è finto.»

In effetti, la serie sovrappone diversi livelli di realtà che talvolta comunicano tra loro, ed è lì che scatta lo straniamento, il disagio, l’inquietudine. È come un teatro di marionette in cui possiamo vedere i fili. Qualcosa non torna nel matrimonio idilliaco tra Wanda e Visione, non solo perché quest’ultimo dovrebbe essere morto, ma perché la serie riporta in superficie una consapevolezza quasi inconscia: le vecchie sit-com, soprattutto quelle degli anni Cinquanta e Sessanta, hanno sempre avuto qualcosa di disturbante.

Un posto pulito, illuminato bene

Non è la prima volta che una produzione lavora sui codici stereotipati delle sit-com, denudando l’incubo nascosto dietro le sue grasse risate: lo hanno fatto, in modi completamente diversi, sia Pleasantville di Gary Ross sia Rabbits di David Lynch. Se pensiamo a I Love Lucy e Vita da strega, i principali riferimenti di WandaVision nei primi due episodi, è impossibile ignorare tutto l’inespresso che si cela tra le pieghe di quelle serie. Le sit-com dell’epoca costruiscono un mondo artificiale, privo di veri conflitti sociali o di pulsioni carnali, fortemente tipizzato e sottoposto a schemi ricorrenti. Una realtà alternativa, insomma, dove gli equivoci sono buffi, il tetto coniugale è un nido d’amore, e le mogli sono ben felici di servire i loro consorti. Solo negli anni Settanta, con serie come Arcibaldo e I Jefferson, le problematiche del mondo reale cominceranno a trasparire nelle sit-com.

L’intuizione vincente di WandaVision è proprio questa: se le sit-com mettono in scena una dimensione fittizia, non può esistere una trappola migliore per la povera Wanda / Scarlet Witch, il cui potere – guarda caso – consiste nell’alterare le leggi della probabilità. Al contempo, la prima serie del MCU adotta uno sguardo postmoderno per inaugurare una nuova era, introiettando i generi televisivi – e i loro tòpoi consolidati – nella stessa maniera in cui i film rielaboravano quelli cinematografici.

Dietro la risata

La serie ci proietta in medias res all’interno di un mondo che non conosciamo, e che facciamo fatica a comprendere. Non c’è un prologo, il primo episodio inizia con la deliziosa sigla musicata da Kristen Anderson-Lopez e Robert Lopez, come se WandaVision fosse davvero una sit-com degli anni Cinquanta. I tempi comici sono calcolati al millesimo di secondo, e le performance di Elizabeth Olsen e Paul Bettany sbalordiscono non solo per la facilità con cui si adattano ai codici del genere, ma anche per le sfumature che si coagulano sui loro volti. Le sceneggiature di Jac Schaeffer e Gretchen Enders riescono a passare dalla commedia al mistero nel giro di pochi istanti, immergendo i personaggi in una specie di orrore metafisico che rimanda ad atmosfere lynchiane.

La regia di Matt Shakman sottolinea questi momenti con arguzia: le inquadrature ricalcano lo stile delle sit-com, con campi totali e mezzi busti, niente zoom o carrelli, rarissimi dettagli; ma quando il velo di Maya si squarcia brevemente, lasciando intravedere un’altra realtà dietro l’illusione, le tecniche di ripresa divengono cinematografiche. In altre parole, il linguaggio visivo si adatta alla narrazione, facendo coincidere forma e contenuto. È in questi momenti che la barriera tra le dimensioni si assottiglia, e i livelli di finzione si moltiplicano: la sit-com è una serie dentro la serie, e qualcuno ne detiene il controllo. Ma di chi si tratta? È la stessa Wanda – come lascia intendere la scena del misterioso apicoltore – o qualcun altro?

Strade alternative

Stando a questi primi due episodi, l’originalità di WandaVision risiede nella sua capacità di osservare il genere supereroistico da un punto di vista più fresco, un po’ come ha fatto Noah Hawley con Legion. Certo, è possibile che alla fine emerga un antagonista da combattere, ma la struttura è certamente diversa dalla media, almeno per quanto riguarda gli adattamenti in live-action, dove c’è meno spazio per la sperimentazione rispetto ai fumetti.

La Fase 4 sarebbe dovuta cominciare in modo più tradizionale, con The Falcon and the Winter Soldier, ma l’avventura di Scarlet e Visione è più adeguata a svolgere tale compito: l’alba di una nuova era nel Marvel Cinematic Universe coincide con uno sguardo rinnovato, utile non solo per cercare strade alternative, ma anche per agevolare l’elaborazione del “lutto”, e superare gradualmente il vecchio status quo. Come il personaggio della bravissima Kathryn Hahn, sbirciamo nelle vite dei nostri eroi sperando di carpirne i segreti, ma ci rendiamo conto che nemmeno loro sanno cosa sta succedendo. Un grande inizio per le serie dei Marvel Studios, senza dubbio.