Nicolas Cage presenta una docuserie sulla storia delle parolacce. Fermiamoci un attimo ad assaporare questo concetto. Dopo aver visto il trailer di Storia delle parolacce, molti di noi si saranno dati di gomito dicendo cose come “È già la serie dell’anno!”. Inevitabile, quando hai un Cage in elegante completo, seduto in un elegante set con il caminetto che ti racconta la storia della parola “pussy”. No?
E, beh, in un certo senso Storia delle parolacce è esattamente quello che ci è stato promesso: sei puntate che esaminano sei famose parolacce della lingua inglese – tranquilli, la serie è sottotitolata in italiano, anche se non doppiata – per scoprire da dove provengono, come il loro uso è mutato e si è evoluto nel tempo e come probabilmente lo farà in futuro. Cage presenta dallo studio e si avvale di una serie di interventi di linguisti, attori (Nick Offerman, Isiah Whitlock Jr.), giornalisti e comici (Open Mike Eagle, Sarah Silverman, Nikki Glaser), insomma tutta gente di spettacolo pronta a raccontare come si usano le parolacce oggi.
Con una formula del genere, è praticamente impossibile non azzeccare qualche momento divertente, ma in linea di massima la serie non lascia troppo il segno. È il tipico prodottino discreto Netflix, si lascia guardare e magari intrattiene per quei venti minuti (con dieci minuti in meno a puntata e una pandemia in meno, avrebbe potuto essere perfetta per Quibi). È confezionata con professionalità, ma le manca un certo slancio. Da una parte c’è Nicolas Cage che fa quello che ci aspettiamo da Nicolas Cage – recita come se fosse in una versione da manicomio di una play shakespeariana, alza le braccia al cielo e urla il più lungo FUCK della storia – dall’altra una manciata di ospiti che se la ridono mentre fanno battute che normalmente si racconterebbero tra loro al pub, e vengono pagati per farlo.
Le parti più interessanti sono quelle che vedono alcuni linguisti spiegare l’etimologia e, letteralmente, la storia delle parolacce in questione. Ma come è ovvio sarebbe impossibile imbastire una puntata di venti e passa minuti solo su questo, e allora gli autori – Bellamie Blackstone, sceneggiatura, Christopher D’Elia, regia – si sono dovuti ingegnare per riempire quei restanti minuti. Alcune idee qua e là tengono in piedi la baracca – come quando si cerca di dimostrare che imprecando è possibile resistere più a lungo con la mano a mollo nell’acqua gelata, o quando si affrontano le parolacce più offensive verso le donne, “bitch” e “pussy”, e nella discussione entra l’argomento del loro “recupero” femminista. Molto interessanti, anche se brevi, i passaggi in cui Cage parla del rapporto tra le parolacce e il sistema della censura cinematografica americana.
C’è insomma del buono in Storia delle parolacce, ma è difficile scrollarsi di dosso la sensazione che molta della roba che stiamo vedendo sia un riempitivo, e che Cage sia stato messo lì per fare da collante con il suo carisma e la sua follia misurata. A volte non si ride mai davvero, e ci si ritrova con un sorrisetto stampato in volto a metà tra l’approvazione bonaria e l’imbarazzo. Forse davvero le puntate di Storia delle parolacce avrebbero essere lunghe la metà, o forse un singolo documentario concentrato su alcuni macro-temi avrebbe potuto risultare più stratificato e intelligente. Così, siamo a metà strada tra il tentativo di dire qualcosa e l’adagiarsi comodamente sulle battutine maliziose e il gusto del proibito, come se fosse sufficiente. Purtroppo, con così poco tempo per approfondire, l’ago della bilancia pende decisamente da quest’ultima parte.
La prima stagione di Storia delle parolacce è su Netflix.