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Un Lupin dei nostri tempi: la recensione della serie Netflix con Omar Sy

Pubblicato il 05 gennaio 2021 di Lorenzo Pedrazzi

La rielaborazione del nostro immaginario collettivo è tipica della cultura postmoderna, e il nuovo Lupin targato Netflix dimostra come i “miti” possano tramandarsi di generazione in generazione senza perdere i propri tratti essenziali, ma adattandosi al contesto storico. La serie di George Kay non è una trasposizione dei romanzi di Maurice Leblanc, ma sfrutta quel patrimonio letterario come una duplice risorsa creativa, diegetica ed extradiegetica: le avventure di Arsène Lupin sono infatti un modello sia per Assane Diop, protagonista della trama, sia per lo stesso Kay, che reimmagina i colpi del ladro gentiluomo nella Parigi contemporanea.

Interpretato da un ammaliante Omar Sy, Assane è il figlio di Babakar Diop, un immigrato senegalese che gli ha trasmesso l’amore per i libri di Leblanc, insieme all’importanza dell’istruzione e dell’onestà. Nel 1995, Babakar viene ingiustamente accusato dal suo datore di lavoro – il potente Pellegrini – di aver rubato una preziosa collana, e finisce in carcere. Gli eventi successivi hanno una drammatica influenza sulla vita del giovane Assane, che riesce però a ricevere un’educazione di alto livello grazie alla signora Pellegrini, e cresce nel mito di Lupin. Ora, con un figlio preadolescente e una compagna da cui si è separato (Ludivine Sagnier), Assane usa le tecniche del ladro gentiluomo per rubare all’alta società parigina che si è arricchita sulle spalle dei più deboli, e medita vendetta contro Pellegrini.

La chiave interpretativa di Lupin risiede proprio nelle origini del protagonista. Assane è un francese di seconda generazione, in un paese dove i conflitti etnico-sociali sono spesso critici (ricordate la rivolta delle banlieue nel 2005?) e il passato colonialista non è stato ancora esorcizzato. Dal canto suo, l’eroe di Maurice Leblanc è un raffinatissimo ladro che ruba solo ai più ricchi, e talvolta lo fa per aiutare i bisognosi: insomma, una scheggia conficcata nella tenera carne dei potenti, ma anche un paladino degli ultimi. Al giorno d’oggi, assegnare la stessa funzione a un figlio d’immigrati è la scelta più naturale, poiché consente di sfruttare il genere thriller per inquadrare i suddetti conflitti da un’altra prospettiva: quella del riscatto degli oppressi, che rifiutano i ruoli stereotipati di martiri o vittime, e si lanciano al contrattacco.

La serie di George Kay attualizza i colpi del ladro gentiluomo in una Parigi caotica e multietnica, dove le divisioni geografiche sono anche sociali, etniche e culturali. Assane eredita però il trasformismo del suo nume tutelare, e si muove agilmente sia nelle banlieue sia negli arrondissement del centro: un camaleonte non solo nell’aspetto, ma soprattutto nel modo in cui si rapporta con gli altri, adottando quella capacità di mutare linguaggio che i Neri imparano fin da giovani per “autodifesa sociale” (esatto, è il code switch di cui parla Big Mouth). Assane lo usa per risultare alternativamente inoffensivo o rassicurante, autoritario o professionale, traendo in inganno i suoi interlocutori. In sostanza, impiega il razzismo dei bianchi contro di loro: se tutti si aspettano che i rider siano immigrati, allora Assane sfrutta questo preconcetto per confondersi tra di essi e beffare la polizia.

Il primo episodio è praticamente un heist movie in miniatura (ed è quasi fruibile come un’opera autoconclusiva), mentre gli altri dipanano la trama orizzontale attraverso la progressiva scoperta della verità. Nelle prime cinque puntate – quelle che ho potuto vedere in anteprima – lo schema è un po’ ripetitivo, e si reitera meccanicamente per almeno tre volte: Assane procede nei suoi piani solo quando trova una nuova fonte di informazioni, ovvero una persona dal passato di suo padre o di Pellegrini. Kay riesce però a diluire questa struttura nelle ingegnose trovate del protagonista, che rielabora le strategie di Arsène Lupin in situazioni diverse, con un gioco citazionista che divertirà i fan di Leblanc (tra cui la sua potenziale nemesi, uno sveglio ispettore di polizia che intuisce subito i riferimenti letterari di Assane).

Ne risulta una serie godibile, amalgamata con intelligenza nell’attuale contesto storico, e che dimostra la permeabilità dei “miti” alle istanze del presente: si trasmettono nel corso dei decenni, anzi dei secoli, e assumono forme diverse a seconda del clima politico in cui rivivono. Sotto questo aspetto, Lupin fa indubbiamente un buon lavoro.