Negli ultimi anni in Italia, nel club dell’informazione cinematografica più o meno professionale, a fronte di un qualche sporadico film di un generalmente giovane regista, parte il tormentone del “nuovo cinema italiano alla riscossa”. Dove per “nuovo” si intende una qualche pellicola che sfugga alle consuete nostrane produzioni a base di commedie, drammi familiari, cinepanettoni e gli ormai rari “film d’autore” e “film impegnati”. E così, sulle spalle del regista e dell’opera di turno, si riversano sogni e speranze di chi vorrebbe un cinema nazionale diverso e quando si arriva al dunque e al giudizio, si tende ad oscillare tra due poli: o si eccede in durezza, perché il film non ci è piaciuto e ci appare come un’occasione persa e un tradimento di quelle promesse che noi stessi abbiamo creato nella nostra testa, o si eccede in entusiasmo, celebrando qualcosa al di là dei suoi effettivi meriti, perché vogliamo vederlo più bello e meritevole di quello che è realmente, nella speranza che abbia un successo trionfale e che generi un’infinita ondata di opere “nuove” (secondo i nostri parametri di “nuovo”) sempre migliori, rivitalizzando quel cinema italiano per noi asfittico.
Ecco, nel parlare de La stanza di Stefano Lodovichi vorrei evitare entrambe queste trappole, perché rispetto il mio lavoro, perché rispetto chi mi legge e perché rispetto Stefano, che è una persona che conosco personalmente e che mi piace (informazione che ritengo opportuno dare per trasparenza assoluta) e che credo che si meriti una critica non influenzata dalle cose che desidero vederci io nel suo film e quanto più onesta possibile. Onesta proprio come il suo film, La stanza, un horror psicologico da poco disponibile sul catalogo Amazon Prime come esclusiva.
È un film realizzato con un budget limitato, in un periodo di tempo limitatissimo (diciassette giorni la durata delle riprese), con un cast molto ristretto (quattro interpreti in totale) e una durata contenuta (un’ora e venticinque minuti).
È un film con un’idea forte, con una fortissima unità di tempo e di luogo, caratterizzato da una attenta cura dei particolari e da una salda gestione della tensione e dei colpi di scena.
È un film che ha la consapevolezza piena dei suoi limiti produttivi, l’intelligenza di non provare (quasi) mai a superarli e l’eleganza di sapercisi muovere dentro con naturalezza, non facendoli avvertire allo spettatore.
È un film in larga parte ben scritto, in larghissima parte ben girato, ben fotografato, ben montato e ben musicato, ed è interamente, ben recitato.
È la pellicola che reinventerà la ruota del cinema italiano? Assolutamente no. Ma non è un problema perché non è questo il suo scopo.
Per un’ora abbondante la pellicola non ha cedimenti: la regia è solida e pulita, non si nega il lusso di qualche nobile rimando artistico (dal Tornatore di Una pura formalità all’Haneke di a Funny Games, passando per M. Night Shyamalan di Unbreakable e Lady in The Water, fino al Lars von Trier di Melancholia e al Polanski de L’inquilino del terzo piano, di Carnage e della Venere in pelliccia). Le interpretazioni, anche aiutate dal forte impianto teatrale, sono magnifiche e Camilla Filippi, Guido Caprino e Edoardo Pesce arricchiscono e donano carne e sofferenza a tre personaggi non semplici. Di grande livello anche la direzione artistica di Adriano Cattaneo, le belle scenografie di Max Sturiale, la straordinaria fotografia di Timoty Aliprandi e le belle musiche di Giorgio Giampà. Intelligente e non scontato il montaggio di Roberto Di Tanna.
Quindi, funziona tutto fino alla fine? Non proprio.
Lo script ha un primo inciampo nella parte iniziale, dove semina con troppa leggerezza un momento che strizza troppo l’occhio allo spettatore e rischia (così è stato nel mio caso) di rovinare una delle varie sorprese della storia. Poi si riprende bene, costruendo momenti molto riusciti e cucendoli assieme con naturalezza ma, quando i nodi della trama vengono al pettine e il “trucco” è ormai svelato, la scrittura si scompone, perde di lucidità, affastella elementi e incogruenze, spiega poco (che non sarebbe un problema) e quel poco che spiega, lo spiega in maniera goffa e confusa (quello è un problema, invece). Purtroppo, l’atto finale di un film è quello che ti lascia il sapore in bocca quando esci dalla sala (dal menù di Amazon, in questo caso), e la conclusione de La stanza sciupa un poco l’ottimo lavoro fatto per tutta l’ora precedente di film che, però, resta indubbiamente davvero ben riuscita.
In conclusione, se la macchina artistico-industriale del nostro cinema funzionasse davvero, produrrebbe cento film italiani all’anno pensati e realizzati come La stanza di Stefano Lodovichi. Che non è “un film bellissimo” perché ha provato a essere qualcosa di diverso rispetto agli altri film italiani e che per questo va premiato nel giudizio, esagerandone le qualità, ma è “solamente” un buon film perché lo è davvero, in senso assoluto, a prescindere dal contesto in cui è stato realizzato, e che non sfigurerebbe, per qualità complessiva e logiche produttive, nel catalogo della tanto acclamata Blumhouse