Alla base di Sound of Metal – ennesimo film a essere acquistato da una piattaforma streaming, in questo caso Prime Video, nel corso della pandemia – c’è un’idea molto interessante. Riz Ahmed interpreta Ruben Stone, un batterista metal che perde l’udito e deve fare i conti con il suo handicap e il problema che questo si porta dietro: una ricaduta nella tossicodipendenza.
Messa così è l’ennesima variazione sul tema della “seconda occasione” che tanto ossessiona gli americani, raccontata però con quel piglio indie/autoriale tipico delle opere di Derek Cianfrance, che qui è autore del soggetto insieme al regista Darius Marder. Marder, che scrive la sceneggiatura con il fratello Abraham, è invece lo sceneggiatore di Come un tuono di Cianfrance, e qui debutta alla regia nel lungometraggio di finzione (dopo aver diretto il documentario Loot). L’influenza del cinema di Cianfrance si fa sentire nel mix tra rigore indie e spinte melodrammatiche del plot.
Sound of Metal ha diversi assi nella manica. Riz Ahmed, prima di tutto, protagonista concentrato e determinato, che ha preso sei mesi di lezioni di batteria e imparato il linguaggio dei segni per calarsi nella parte di Ruben. Marder ha fatto bene a sceglierlo, perché Ahmed ha uno sguardo penetrante (quello di “un gufo”, come viene descritto nel film) e sa esprimere molto con gli occhi, in un film che, per sua natura, punta poco sui dialoghi e molto sui suoni, o l’assenza di essi. Da questo punto di vista, la messa in scena è ineccepibile: tutto fila liscio, snello, e il racconto non ha punti morti. Preso così, Sound of Metal, pur non essendo molto originale per come incastra questa parabola all’interno di una progressione narrativa piuttosto abusata, è un buon film che non annoia e accompagna lo spettatore fino alla fine con poco sforzo.
Il tema centrale è parecchio interessante, e non si tratta della musica, né dell’handicap. Sound of Metal parla della nostra riluttanza a voltare pagina e del modo in cui ci aggrappiamo al passato, idealizzandolo. Marder utilizza l’espediente della sordità per illustrare questa nostra incapacità di accettare il presente, di accettarci per quello che siamo senza idealizzare quello che siamo stati. Ruben mira a una costosissima operazione chirurgica che, in teoria, dovrebbe restituirgli l’udito, ma non si rende conto che tornare a come si era un tempo è impossibile… e futile. L’uomo non può controllare la propria vita, ci dice Marder. Può solo fare del proprio meglio con quello che ha a disposizione.
Purtroppo, però, Sound of Metal è anche un’opera con delle ambizioni fuori portata, che non sa sfruttare pienamente le sue ottime intuizioni. Perché, sulla carta, la parabola discendente di un musicista che non può più fare musica e deve ritrovare se stesso, è forte. Eppure Marder sembra aver fretta di esporre la sua tesi e giungere alla sua lampante conclusione. Allo stesso tempo, è come se avesse paura di cadere nelle trappole del melodramma facile. Ne risulta un film troppo prudente, che non sceglie completamente né la strada della sottrazione, né quella del drammone all’americana. Così, Sound of Metal finisce per appoggiarsi all’estetica dell’indie svendendole la propria anima, risultando freddo quando dovrebbe commuovere e frettoloso nel condensare la parabola del protagonista in poche scene, che non riescono a trasmettere il senso del suo cambiamento interiore e del tumulto che sta vivendo.
Un finale ambiguo e potente, comunque, aiuta a risollevare il film e a salvarlo da una morale consolatoria. Per ora dovrà bastare.