Se è vero che l’interesse di Hollywood per Stephen King non si è mai esaurito (e forse non si esaurirà mai), è innegabile che il periodo tra gli anni Ottanta e i primi Novanta sia stato particolarmente fortunato per le sue trasposizioni cinematografiche, soprattutto sul piano quantitativo. Le ragioni sono due: da un lato, gli anni Ottanta hanno visto la sua consacrazione definitiva presso il grande pubblico, grazie all’onda lunga dei suoi romanzi precedenti (Carrie, Shining, La zona morta…) e all’uscita di enormi successi come It e La torre nera; dall’altro, gli incubi proposti da King si adeguavano bene ai gusti di Hollywood, sempre più lontani dall’horror tradizionale – quello dei castelli in rovina e delle antiche magioni gotiche – e più vicini all’idea di un orrore coltivato nella quotidianità, che lo scrittore di Portland aveva ereditato dal grande Richard Matheson.
Se poi pensiamo a Misery, l’attrattiva è ancora maggiore. In una scala ideale degli adattamenti, il film di Rob Reiner si pone a metà strada fra i prestigiosi film nostalgico-melodrammatici (Stand By Me, Le ali della libertà, Il miglio verde…) e l’horror “puro” che segue le regole del genere (La metà oscura, Cujo, Cimitero vivente…). Misery, infatti, non contamina la realtà con il fantastico, ma inventa una minaccia la cui mostruosità è direttamente proporzionale alla follia umana, e potrebbe nascondersi dietro la maschera insospettabile di chiunque. Il romanzo del 1987 nasce peraltro dalle esperienze personali dell’autore, ovvero le critiche dei fan dopo l’uscita de Gli occhi del drago (reo di aver accantonato l’horror per il fantasy) e la sua dipendenza da droghe e alcol. Se lo scrittore Paul Sheldon – il protagonista di Misery – si sentiva incatenato all’eponima eroina dei suoi romanzi, anche King credeva di essere intrappolato nel genere orrorifico, come dimostra l’acredine dei suoi seguaci. Da qui l’esigenza di raccontare la storia di un uomo che vuole lasciarsi alle spalle il passato e rilanciare la propria arte, ma deve scontrarsi con una fan radicale.
Questo perché le fanbase, per loro stessa natura, tendono sempre a essere reazionarie e conservatrici. Refrattarie a ogni cambiamento, si appellano a una tradizione che ritengono immutabile, e che si consolida nella decennale reiterazione della serialità. È un tema molto attuale, in tempi di saghe cinematografiche infinite e fumetti trasposti sul grande schermo, ma Stephen King lo aveva già capito più di trent’anni fa. Anche per questo, i temi centrali di Misery non sono affatto invecchiati.
Reiner aveva appena diretto Stand By Me, dimostrando di saper inquadrare bene la poetica kinghiana più delicata, fatta di nostalgia, riti di passaggio e attrazione per l’ignoto. Misery gli fu raccomandato dal produttore Andrew Scheinman, suo partner alla Castle Rock Entertainment (così battezzata dal regista in onore della cittadina fittizia in cui Stephen King ambienta molte storie). Reiner chiese al due volte premio Oscar William Goldman di scrivere l’adattamento, forte della loro precedente collaborazione per La storia fantastica, e fu proprio Goldman a suggerire il casting della sconosciuta Kathy Bates nel ruolo di Annie Wilkes, la folle infermiera che tiene prigioniero Sheldon dopo un incidente automobilistico. Il successo del film fu in gran parte merito suo, tant’è che si guadagnò persino un Oscar come Miglior Attrice Protagonista (l’unico mai vinto da un adattamento kinghiano).
Il personaggio di Annie merita un discorso a parte. Ancora lontanissima da ogni dialogo concreto su parità e inclusività, la Hollywood dell’epoca conosceva un numero limitato di figure femminili: la fidanzatina d’America (Meg Ryan e Kirstie Alley in qualunque commedia romantica); la belva mangiauomini (Glenn Close in Attrazione fatale, Sharon Stone in Basic Instinct, Demi Moore in Rivelazioni); la prostituta redenta (Jamie Lee Curtis in Una poltrona per due, Julia Roberts in Pretty Woman, Patricia Arquette in Una vita al massimo); la spaventosa megera (Anne Ramsey ne I Goonies e Getta la mamma dal treno); e Jodie Foster. È una generalizzazione, ma non così lontana dalla verità. Ebbene, Kathy Bates sublima la figura della megera come nessun’altra attrice coeva, trasformandola nell’incubo di qualunque yuppie.
Ricordiamoci che siamo alla fine degli anni Ottanta, epoca in cui l’edonismo reaganiano ha generato mostri terrificanti. In questo contesto, Annie Wilkes irrompe come una tata severa nella casa di un bambino viziato, castrando proprio quelle libertà e licenziosità (memorabile lo scatto di rabbia per il turpiloquio nel nuovo romanzo di Sheldon) che le nuove generazioni danno per scontate. Nel suo stesso linguaggio trattenuto e antiquato c’è la chiave della sua ossessione per Misery, che poi non è molto diversa – tendenze omicide a parte – dal modo in cui certe narrazioni popolari vengono idolatrate ancora oggi. La predilezione per la semplicità e gli schematismi, l’amore per le distinzioni manichee, l’idealizzazione di un passato più candido e sincero… tutto questo implode nella testa di Annie quando Sheldon decide di uccidere Misery, privandola di un lieto fine da sogno. Ma Misery deve morire, perché la sua dipartita è l’unico modo con cui l’autore può riscattare la sua carriera. Un po’ come Arthur Conan Doyle quando voleva uccidere Sherlock Holmes, per intenderci.
Purtroppo, la volontà del creatore diverge da quella del pubblico, che invece desidera sempre le stesse dinamiche ripetute all’infinito, solo con qualche piccola variazione marginale (pensate alla differenza fra la trilogia prequel di Star Wars, fatta da George Lucas in persona, e quella sequel, realizzata invece dai fan). L’unica soluzione è di soggiogare l’autore, riducendolo a una scimmietta che balla solo la musica imposta dal padrone. La condizione di Paul Sheldon nasce da fattori molto personali, ma l’identificazione scatta facilmente per pura solidarietà umana. Annie gli costruisce attorno un clima oppressivo, esasperante, umiliandolo nel corpo e nel suo lavoro di scrittore. Un clima che non viene mitigato nemmeno dalle edulcorazioni in sede di adattamento, peraltro contestate dallo stesso Goldman. Nel romanzo, Annie amputa un piede a Paul per impedirgli di scappare, e massacra un poliziotto con una mototrebbiatrice; nel film, si limita a rompere le caviglie dello scrittore con un maglio, e uccide lo sceriffo con una fucilata alla schiena. Ma la trasposizione non ne risulta indebolita, poiché l’atmosfera ansiogena – contrariamente ad altri film basati su King – ha un’importanza primaria rispetto al grand guignol.
Misery è quindi un tipico esempio di horror “istituzionale”, di quelli che potevano tranquillamente andare in onda su Canale 5 o Rete 4, ed essere visti anche dal pubblico perbenista della prima serata. Forse un po’ sorpassato in certe soluzioni di montaggio e nella costruzione delle inquadrature, ma ancora inquietante, soprattutto per merito di Kathy Bates e la sua Annie. Il fisico massiccio e le movenze sgraziate la privano dei tratti stereotipicamente più femminili, desessualizzandola di fronte al binarismo dominante. Ciononostante, mantiene caratteristiche stereotipate come l’ingenuo romanticismo e il candore superficiale, generando un cortocircuito tra interno ed esterno, tra essenza e apparenza: insomma, gli spettatori maschi sarebbero disposti a perdonare la sua pazzia solo se Annie fosse più attraente.
Con la sua forza e la sua iniziativa, l’infermiera di Stephen King non rappresenta una minaccia perché si oppone dualisticamente al maschile, ma perché dimostra di poterlo battere al suo stesso gioco di violenza e sopraffazione. Non a caso, subisce una trasfigurazione bestiale nello scontro risolutivo con Paul, quando ormai non solo non è più donna – ammesso che lo sia mai stata, agli occhi del male gaze – ma non è nemmeno umana. E il suo “spettro” rimane impresso nel subconscio del protagonista, come nella memoria degli spettatori.