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Come MANK ha scritto Quarto potere: la recensione del film di David Fincher

Pubblicato il 09 novembre 2020 di Lorenzo Pedrazzi

C’è un noto libro di Robert L. Carringer che in italiano s’intitola Come Welles ha realizzato Quarto potere, testo fondamentale per qualunque studente di cinema che affronti un corso monografico su Orson Welles. Citarlo nel titolo della recensione è una specie di inside joke, ma serve anche a chiarire la vera natura di Mank: nonostante le apparenze, il film di David Fincher non racconta come Herman J. Mankiewicz abbia scritto Quarto potere, ma perché. E questa è la chiave di volta per decifrare il copione di Jack Fincher, padre del regista, che sceneggiò Mank negli anni Novanta.

Raccontare la stesura di Citizen Kane – titolo originale, ben più emblematico, del capolavoro wellesiano – significa immergersi in una delle diatribe più contorte nella storia di Hollywood, dove il tifo e le simpatie personali mettono spesso in ombra la realtà dei fatti. La scelta del punto di vista è già di per sé una dichiarazione programmatica, e infatti Jack Fincher opta per Mankiewicz, calandolo al centro di una sceneggiatura più “storica” che “biografica”: il nucleo del racconto non è tanto la vita dello scrittore (ex critico e commediografo passato al cinema nel 1926), quanto le connivenze tra Hollywood e politica negli anni Trenta, e quindi il contesto in cui Quarto potere è stato concepito. A dire il vero, persino la paternità del soggetto è al centro di una contesa, con Welles che si attribuisce l’idea di parodiare il magnate dell’editoria William Randolph Hearts nel suo debutto alla regia; Fincher invece la ascrive allo stesso Mankiewicz, stabilendo così la propria posizione fin dall’inizio (peraltro corroborata da varie testimonianze di cui parla Pauline Kael nel saggio Raising Kane).

È proprio il ritratto che Kael fa di Mankiewicz ad aver ispirato il copione di Fincher, o almeno questa è l’impressione che traspare dal film. Complice l’interpretazione scoppiettante di Gary Oldman, Mankiewicz ne esce come un acuto raisonneur che si muove sulla soglia del “sistema”, capace sia di contestarlo sia di sfruttarne i meccanismi per profitto. Un perdente e un outsider, sotto certi aspetti, mai pienamente integrato nelle logiche di Hollywood, ma amato dai potenti come Hearst proprio per la sua scarsa disciplina: è l’unico in grado di vedere il Re nudo, e avere il coraggio di dirlo. Simile a un giullare di corte, gli è eccezionalmente consentito di deridere l’autorità, almeno finché non si spinge troppo oltre.

Non a caso, l’ironia è il suo linguaggio precipuo. Già sceneggiatore (non sempre accreditato) di commedie sofisticate e farse anarchiche, il Mankiewicz di Fincher usa la satira e il dileggio in ogni interazione della sua vita. Questa scelta non convince, in particolare quando tutti i personaggi cercano di fare i brillanti: l’impostazione faceta, vicina alla screwball comedy di quegli anni, congela il film in una “meccanicità” fin troppo cerebrale, appesantita dalle soluzioni metanarrative che scandiscono il racconto (ogni scena è introdotta da una didascalia ambientale, estrapolata dalla sceneggiatura). Ne deriva una frammentarietà dal sapore artificioso, che si riverbera anche nell’impianto sonoro e visivo scelto da David Fincher: l’audio in mono, il bianco e nero, la costruzione delle inquadrature e alcuni movimenti di macchina rievocano il cinema dell’epoca (e Fincher, dopo anni di virtuosismi, è indubbiamente bravo a imporre una regia “invisibile”), ma si tratta di un vacuo e algido mimetismo, per quanto ineccepibile sul piano tecnico.

L’ironia stessa diviene molto più efficace quando assume un tono dolente, e infatti Mank si risolleva all’improvviso nel terzo atto, come promesso da Mankiewicz in una delle battute più autoconsapevoli di sempre. È qui che la performance di Gary Oldman raggiunge il massimo dell’istrionismo, e il conflitto tra lo scrittore e l’elite hollywoodiana diventa insanabile. A impreziosire l’epilogo è il montaggio di Kirk Baxter, che mette in comunicazione passato e presente con un sapiente gioco di attese e rimandi. In tal modo, l’influenza del quadro storico-sociale risulta ancora più palpabile: la scrittura di Citizen Kane trarrebbe origine anche dalle convinzioni politiche di Mankiewicz, deluso dalla sconfitta di Upton Sinclair alle elezioni californiane del 1934, e disgustato dagli espedienti dei suoi oppositori (Hearst in primis) per screditarlo. Tutto questo senza mai scivolare nel didascalico, al punto che la visione di Quarto potere – oltre a essere doverosa per ogni cinefilo – è necessaria per apprezzare questa ricostruzione.

E Orson Welles? Interpretato con discreto carisma da Tom Burke, il futuro ispiratore della politique des auteurs è lasciato in disparte, forse eccessivamente bistrattato dal copione di Jack Fincher. D’altra parte, se Quarto potere è una pietra di paragone per il cinema mondiale, l’ultimo film delle origini e il primo della contemporaneità, il merito è soprattutto di Welles, pur senza negare il contributo dei suoi collaboratori nell’ambito dello studio system (che Welles stesso metterà in discussione con l’idea del regista come autore assoluto). È vero: il “bambino prodigio” Welles aveva ricevuto carta bianca dalla RKO per il suo primo film, si trovava in una posizione dominante rispetto a Mankiewicz e potrebbe aver cercato di accreditarsi l’esclusiva paternità del copione, fatto inaccettabile – se confermato – visto che quest’ultimo ne aveva completate almeno due stesure. Al contempo, però, gli apporti di Welles sono innegabili, e l’imperitura grandezza di Quarto potere è da rintracciarsi soprattutto in come quella sceneggiatura sia stata messa in scena. Ecco perché Welles meritava un trattamento più riguardoso in Mank, film che rivendica il suo essere “partigiano” con la medesima sicurezza di uno studio accademico. Lo fa senza lasciare spazio all’ambiguità, ma non c’è da sorprendersi: il cinema, come ogni arte, è una questione di punto di vista. Talvolta anche a scapito della verità.