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Apologia del white trash: la recensione di Elegia americana

Pubblicato il 25 novembre 2020 di Lorenzo Pedrazzi

La parola chiave di Elegia americana è paradossalmente esclusa dal titolo italiano, anche perché hillbilly non ha una traduzione fedele nella nostra lingua. Termine per lo più dispregiativo, hillbilly indica le persone che risiedono nelle aree rurali e montuose dell’America più profonda, soprattutto in stati come l’Ohio o la Virginia, lontano dai grandi centri abitati. Hanno fama di gente arretrata e violenta, e come tali vengono spesso ritratti dal cinema e dalla televisione. Talvolta sono oggetto di scherno (il Cletus dei Simpson), talvolta incarnano una minaccia brutale (la famiglia Sawyer di Non aprite quella porta), ma la costante è sempre la stessa: nell’immaginario collettivo degli statunitensi, rappresentano l’emblema definitivo dell’ignoranza e della grossolanità.

È anche in risposta a questi cliché che J.D. Vance ha deciso di intitolare il suo libro di memorie Hillbilly Eulogy, qui trasposto da Ron Howard per Netflix. Trattandosi di un’autobiografia, Vance (Gabriel Basso) è anche il protagonista e narratore del film: lo incontriamo mentre studia legge a Yale nel 2011, alla ricerca di uno stage presso uno studio legale per pagarsi le salatissime tasse universitarie. Sua sorella Lindsay (Haley Bennett) lo chiama dall’Ohio perché la madre Bev (Amy Adams) ha avuto un’overdose di eroina e si trova in ospedale, costringendolo a farsi 10 ore di auto per tornare a casa. J.D. ricorda quindi la difficile infanzia vissuta con una madre instabile, circondato dai drammi della povertà e della droga, ma anche da una nonna (Glenn Close) che lo ha fatto rigare dritto.

È chiaro fin dall’inizio che la vicenda di J.D. Vance racconta una sua personale versione del Sogno Americano, partendo realmente da uno degli strati più bassi della popolazione. Di sicuro non è un’espressione che Vance apprezzerebbe, ma Elegia americana mette in scena il white trash in forma quasi apologetica, diversamente da quanto il cinema americano ha fatto in passato. Se pensiamo agli anni Duemila, film come Shotgun Stories o Winter’s Bone affrontano il medesimo contesto sociale con sguardo più critico, mettendone in discussione la miseria e le leggi patriarcali. Certo, né Vance né la sceneggiatrice Vanessa Taylor (o tantomeno lo stesso Howard) nascondono le criticità di quell’ambiente, fatto di prevaricazione e indigenza, ma al contempo ne esaltano i valori familiari, all’insegna di un’arcaica unione tra consanguinei.

Gli attacchi della critica statunitense nascono proprio da qui, più che dai limiti effettivi dell’opera. Nell’America martoriata da Trump (che proprio nei redneck ha trovato i propri più grandi sostenitori), Elegia americana sembra quasi fuori luogo, come se fosse rimasto dietro la curva della Storia. Mentre i liberal chiedono maggiore diversità etnica e una celebrazione della famiglia non tradizionale, il film di Ron Howard cerca un po’ di luce in quegli strati sociali – la classe lavoratrice bianca della provincia rurale – che gran parte dell’opinione pubblica vorrebbe dimenticare. Lo fa con lo schematismo che spesso caratterizza il suo cinema, solo che stavolta non ci sono le vite straordinarie di personaggi eccezionali a mascherarne i limiti, come accadeva in Apollo 13 o A Beautiful Mind. Qui, i risvolti didascalici si sentono tutti, e sono appesantiti da un parossismo nervoso che attraversa la vicenda, soprattutto nelle interazioni violente tra i personaggi.

Certe problematiche del white trash (come il razzismo) restano ai margini, offuscate dalla glorificazione dei valori tradizionali: famiglia, radici, affermazione individuale. Peccato, perché Amy Adams e Glenn Close sono eccezionali anche in due ruoli così insoliti per entrambe, e la regia di Howard sa lavorare tanto sui volti quanto sugli ambienti per ottenere il meglio da entrambi. Non è il disastro di cui parla la critica americana, né tantomeno il suo film peggiore (per quello c’è la trilogia di Dan Brown). Eppure, non si può fare a meno di notare l’ambiguità del contenuto, cui si accompagna una forma ibrida e incerta, a metà fra le patinature di Hollywood e la crudezza del cinema indie.