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The Boys 2, un finale sanguinoso e satirico | Recensione

Pubblicato il 09 ottobre 2020 di Lorenzo Pedrazzi

Giunta al termine, la seconda stagione di The Boys conferma che la distribuzione settimanale è stata un’idea vincente: ogni episodio ha avuto il tempo di sedimentarsi nella mente del pubblico, senza rischiare che i numerosi riferimenti socio-politici passassero inosservati. Una qualità fondamentale per una serie che dialoga con l’attualità, rielaborandola nella sua metafora supereroistica (tutt’altro che velata, a dire il vero). Il finale – intitolato What I Know – chiude praticamente tutti gli archi narrativi e ne apre di nuovi, mentre la serie si avvicina alle premesse del fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson.

ATTENZIONE: CONTINE ALCUNI SPOILER

Si riparte dall’epilogo della scorsa puntata: un misterioso super ha sabotato l’udienza di Vogelbaum al Congresso, facendo esplodere la testa di quest’ultimo e di altre persone, tra cui il rimpiazzo di A-Train nei Sette. Come al solito, la Vought è salva. Esasperato, Butcher organizza un piano per “uccidere tutti”, ma Becca fugge dalla sua prigione e lo prega di aiutarla a riprendere Ryan, rapito da Homelander e Stormfront. È qui che Butcher diventa il perno “morale” dell’episodio: ama Becca ma odia i super, e non si fida di nessuno di loro… benché meno del figlio di Homelander. In un certo senso, i conflitti interiori di What I Know ruotano sempre attorno a cosa significhi “fare la cosa giusta”, e fino a che punto certi personaggi siano disposti a rischiare. Vale per lo stesso Butcher, ma anche per A-Train (guidato però da scopi personali) e Queen Maeve, che somatizza più di chiunque altro il contrasto fra l’egotismo dei supereroi e i loro doveri verso la popolazione. Il suo coinvolgimento nella battaglia finale contro Stormfront è piuttosto esaltante, anche perché agevola una necessaria catarsi dopo gli orrori perpetrati dall’eroina nazista.

La vera identità di quest’ultima, peraltro, viene rivelata dai media, e la cittadinanza si rivolta improvvisamente contro di lei: i meme che la stessa Stormfront usava per veicolare la demagogia dell’alt-right, ora distruggono la sua immagine su internet. Con una certa lucidità, è proprio lei a denunciare il paradosso dell’opinione pubblica, accennando un’interessante riflessione sul nostro presente: la folla condanna certe posizioni ideologiche solo quando ne scopre l’esplicita provenienza nazista, senza rendersi conto che lo erano fin dall’inizio, anche quando l’opinione pubblica era pronta a sostenerle. Il dialogo con l’attualità continua letteralmente fino alla fine, epilogo compreso: indipendentemente dai moti della folla, le multinazionali cadono sempre in piedi perché si adattano a ogni situazione, assorbendo lo Zeitgeist del momento nelle proprie strategie commerciali. Di questa realtà, lo Stan Edgar di Giancarlo Esposito è il volto più rappresentativo, e l’attore americano è bravissimo a infondergli un’aura di eleganza, fascino, cinismo, ironia e rispettabilità.

La riuscita dell’episodio è dovuta però anche a fattori più basilari, legati all’intrattenimento. Quando i nostri eroi cominciano ad attuare il loro piano, la tensione monta sempre di più fino alla battaglia con Stormfront, il cui valore catartico – come detto prima – è piuttosto elevato. Anche i risvolti più drammatici, per quanto prevedibili, hanno un certo impatto. L’aspetto più interessante resta però Homelander, il vero MVP di questa stagione. Valeva anche per la prima, è vero, ma stavolta il suo personaggio rivela maggiori sfumature: la sua ossessione per la popolarità, il desiderio di essere amato, è la costante di questi otto episodi, nonché il propulsore di ogni sua azione. Il rapporto con il figlio Ryan ha messo in luce alcune sue fragilità, e persino un lato tenero (per così dire) che non mostrerebbe con nessun altro. In alcuni frangenti si notano persino i suoi dubbi di fronte all’estremismo di Stormfront, e il merito è tutto della performance di Antony Starr, la grande rivelazione della serie. Il finale gli permette di esprimere diverse sfaccettature del carattere di Homelander, e la sua capacità di trasmetterle anche solo con uno sguardo – emblematico il monologo davanti alle telecamere con l’inquadratura che si stringe su di lui – è eccezionale.

L’epilogo, insomma, chiude quasi tutti gli archi narrativi per aprirne di nuovi, che saranno esplorati nel corso della terza stagione. Probabilmente la focalizzazione cambierà, concentrandosi su altre problematiche dell’America contemporanea: in particolare, l’ultimo colpo di scena sembra proiettare un’ombra anche sulla sinistra progressista, spesso accusata di essere troppo lontana dalla “pancia” del paese (e infatti quest’arma è stata usata spesso da Trump in campagna elettorale, già nel 2016). Al di là di questo, la seconda stagione di The Boys restituisce l’immagine di una nazione ormai militarizzata, ponta a vedere nemici ovunque, e chiaramente sull’orlo di una crisi di nervi. Lo dimostra il finto video “educativo” con cui si apre la puntata: di fronte ai possibili attacchi dei “supercattivi”, gli studenti vengono istruiti ad armarsi con quello che possono, mentre l’insegnante è autorizzata a usare una pistola (suona ridicolo, ma una proposta del genere è stata fatta per davvero). Si crea un nemico ad arte per stimolare la paura, rendendo malleabile una popolazione che è disposta ad accettare tutto – persino una limitazione delle sue libertà – pur di avere sicurezza. Più che uno show di supereroi, The Boys si conferma una satira socio-politica, dove i supereroi sono uno strumento del racconto, più che un fine. Bene così.