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The Boys, una satira del pinkwashing nell’episodio 2×05 | Recensione

Pubblicato il 18 settembre 2020 di Lorenzo Pedrazzi

The Boys 2 continua la sua spassosa satira dell’industria culturale, immaginando gli effetti “realistici” (o quantomeno verosimili) dell’esistenza dei supereroi nel nostro mondo. We Gotta Go Now, quinto episodio della seconda stagione, mette in scena le conseguenze pubbliche e private degli eventi appena trascorsi, dimostrando che le vicende dei Sette sono molto più vicine al nostro presente di quanto non sembrino.

ATTENZIONE: CONTIENE ALCUNI SPOILER

Le multinazionali non dormono mai

Non è un caso che la scena d’apertura sia dedicata a Queen Maeve. Nel quarto episodio, Homelander ha fatto outing su di lei in diretta televisiva, rivelando al pubblico che Maeve è lesbica (in realtà bisessuale). Vought ha colto la palla al balzo e, dopo una riscrittura del copione da parte di un certo Joss (…Whedon?), il film dei Sette è stato modificato per includere il coming out dell’eroina. Lo vediamo nella prima scena, un efficace cold open che ci porta direttamente in questo ridicolo colossal, ricco di momenti artificiosi e imbarazzanti. Vought, emblema di tutte le multinazionali del mondo, si adatta ai tempi: in clima di woke culture, assorbe le battaglie per i diritti LGBTQ+ e le strumentalizza per fini commerciali. È la pratica del pinkwashing, con cui le corporation indossano una maschera progressista per ottenere consensi, proprio come succede a Hollywood quando la diversità sessuale è una concessione “dall’alto”. In tal caso, più nello specifico, si tratta di rainbow washing, e la sceneggiatura di Ellie Monahan è abile a prendersene gioco, mostrando la trasformazione della vita privata in marketing. Stesso discorso per il “femminismo” dello slogan «Girls get it done», con tanto di posa eroica da parte di Stormfront, Maeve e Starlight: la cosa divertente è che i Marvel Studios hanno fatto una cosa del genere per davvero, nella scena più cringe di Avengers: Endgame.

Dal finto progressismo al vero conservatorismo, il passo è breve. Homelander uccide inavvertitamente un ragazzo mentre ferma un superterrorista in un villaggio africano, il video viene diffuso in rete e la sua popolarità cala drasticamente. Contestato dall’opinione pubblica, il supereroe ha un crollo psicologico: come un politico qualunque negli Stati Uniti, il suo successo è basato su gelidi numeri statistici, che danno assuefazione. Un calo consistente equivale a una crisi d’astinenza, soprattutto in un mondo che adotta le logiche superficiali dei social network. È qui che interviene Stormfront, il personaggio più “divertente” della serie (passatemi il termine) insieme allo stesso Homelander. Ogni volta che appare sullo schermo ci si può aspettare di tutto, e non delude mai. In quanto simbolo dell’alt-right americana, Stormfront gli propone le stesse strategie adottate dal movimento di estrema destra: diffondere dei meme in rete per manipolare l’opinione pubblica. «Se li vedi comparire sulla pagina Facebook di tuo zio, vuol dire che funzionano» dice l’infida suprematista, spiegando in poche parole l’efficacia di questo sistema: si punta alla pancia del paese, all’everyman spaventato e confuso, creando un nemico su cui possa riversare paure e frustrazioni. Serve a distrarre i cittadini dai problemi reali, ma anche dagli errori del governo e dei suoi rappresentanti. Il risultato è l’alleanza tra Homelander e Stormfront, che sfocia in una delle scene più (s)cult della serie.

Uomini contro

In parallelo si svolgono le vicende di Billy Butcher, allontanato da Becca e rifugiatosi da sua zia, dove riabbraccia l’amato bulldog Terrore. Ormai stanco e disilluso, scopre di essere braccato da Black Noir ma può contare sull’aiuto di Hughie e Latte Materno, che sono riusciti a trovarlo. C’è da dire che le storie dei Boys destano meno curiosità rispetto a quelle dei Sette, non perché siano scritte male (al contrario: i membri del gruppo sono ben caratterizzati), ma semplicemente perché il loro contenuto è meno “politico”, nonché meno colorito. Gli autori, comunque, trovano sempre il modo di mettere i nostri eroi l’uno contro l’altro, scovando contrasti e parallelismi. Il rapporto più significativo è quello tra Butcher e Hughie, due modi opposti di affrontare il mondo, ma entrambi smarriti dopo aver perso – per ragioni differenti – la donna amata. Lo scontro disperato con Black Noir è l’occasione per tornare solidali, ricostruendo un’alleanza che ha traballato in questi primi episodi. Sopravvivono solo grazie all’astuzia di Butcher, ed è suggestivo assistere alla forza di Black Noir: l’ennesima dimostrazione che il compito dei Boys è quasi impossibile, contro avversari così potenti.

C’è poi la trama di Frenchie e Kimiko, che accetta di fare la sicaria per la mafia albanese. La micidiale ragazza giapponese ci regala una delle scene più splatter dell’intera serie (strappa la faccia di un malvivente russo a mani nude), mettendo in chiaro che può cavarsela anche senza Frenchie. Il loro legame, però, è importante sul piano emotivo, aiuta Kimiko a conservare la sua “anima”: quella che sta vivendo è una fase di transizione dopo la morte del fratello, caotica e dolorosa, prima di tornare in squadra e ottenere vendetta contro Stormfront. Nel frattempo, Abisso si sposa con la donna scelta dalla Chiesa del Collettivo, ennesima istituzione che fa leva sulle debolezze della gente per diffondere il suo credo. The Boys, insomma, riesce a dare il giusto spazio a ogni membro del suo cast corale, approfondendone le psicologie rispetto alla prima stagione; e la satira politica segue il passo, senza mai perdere lucidità. Indubbiamente ci si diverte, ma sempre con una sensazione di inquietudine: superpoteri a parte, tutto questo sta succedendo davvero.