Tornare a casa è terribile: la recensione di Sto pensando di finirla qui

Tornare a casa è terribile: la recensione di Sto pensando di finirla qui

Di Lorenzo Pedrazzi

Sotto molti punti di vista, Sto pensando di finirla qui è un film dell’orrore. Non lo è in termini di genere (per quanto alcune atmosfere siano riconducibili ai tòpoi dell’horror), ma nel senso di film sull’orrore: l’orrore della normalità e della quotidianità, delle occasioni perdute e delle convenzioni sociali, del trascinarsi di giorno in giorno tra relazioni tossiche e ansia da solitudine. Per certi aspetti, il “male di vivere” di cui parlava Montale.

Non è propriamente una novità per Charlie Kaufman, capace di dare corpo al disgusto esistenziale come pochi altri registi contemporanei. Quando si è imbattuto nel romanzo di Iain Reid, Kaufman deve averlo sentito molto vicino alla sua sensibilità, soprattutto per la natura conflittuale dei legami romantici, l’intrinseca spossatezza dei rapporti umani, l’alienazione dei personaggi rispetto all’ambiente. Certo, Kaufman lo traspone in modo estremamente personale, ma non c’è dubbio che il libro dello scrittore canadese gli abbia offerto la possibilità di variare il suo registro, allacciandosi alla tradizione dei mind game movie.

Sto pensando di finirla qui rientra effettivamente in questa categoria: un’opera che trascina lo spettatore nel mondo del protagonista, obbligandolo a identificarsi con una sorta di io narrante (rigorosamente inaffidabile) a focalizzazione interna. Il film di Kaufman si aggiunge così a L’inquilino del terzo piano, Mulholland Drive, L’uomo senza sonno, Il cigno nero ed Enemy, giusto per citare i più noti, ma lo fa con lo sguardo labirintico e intimista che caratterizza il suo cinema.

Quando Jake (Jesse Plemons) si mette in viaggio con la sua ragazza (Jessie Buckley) per farle conoscere i suoi genitori, si avverte subito che qualcosa non torna, come se alcuni elementi fossero sfasati. Frasi che si sovrappongono lievemente, pensieri intuiti dal partner, oggetti che si trovano dove non dovrebbero – o in condizioni stridenti con il contesto. Kaufman usa il romanzo come punto di partenza per riflettere sulla percezione del tempo da un’ottica non lineare, che imprigiona persone, cose e animali in una gabbia di comportamenti ossessivi. Il risultato, soprattutto dal momento in cui Jake e la sua ragazza incontrano i genitori di lui, è una vita intesa come successione di momenti statici, più che un’evoluzione armonica di fatti, eventi ed esperienze.

Forse avete notato che mi riferisco alla protagonista femminile come “la sua ragazza”, senza mai nominarla. Il personaggio principale – l’io narrante – è proprio lei, ma nel romanzo non ha nome. Nel film, invece, ne ha sin troppi. Sono simili fra loro, come quando pensiamo di aver afferrato il nome di qualcuno, ma non ne siamo tanto sicuri e procediamo a tentativi. Ovviamente c’è una ragione per questo, ed è legata alla confusione dell’identità: un discorso che il libro rende esplicito, mentre la sceneggiatura di Kaufman – fortunatamente – sfiora in modo ambiguo. Gli indizi ci sono, ma la soluzione non viene mai dichiarata.

In effetti, come spesso accade nei mind game movie, Sto pensando di finirla qui si apre alle interpretazioni del fruitore, chiamato a ricostruire la vicenda con i tasselli che sono disseminati nell’arco del racconto, fin dalle primissime battute (ed è anche per questo che una visione reiterata è consigliabile: ogni volta si colgono nuovi dettagli). I dialoghi stessi, lunghi e cerebrali, nascondono ulteriori chiavi interpretative, e sono una finestra sull’interiorità dei personaggi. La scena in cui la protagonista recita un suo componimento – in realtà Bonedog di Eva H.D. – è forse quella più significativa: se il più grande successo di una poesia è di far credere al lettore che sia stata scritta apposta per lui, lo stesso vale per ogni opera d’arte, film compresi; e quando Jessie Buckley guarda improvvisamente in camera, ci trasmette proprio quella sensazione. Per un autore intimista come Kaufman è fondamentale condividere la sua dimensione emotiva con il pubblico, ovvero fare appello alle esperienze comuni per rielaborarle e solidarizzare, raggiungendo una sorta di catarsi. È quello che succedeva anche in Eternal Sunshine, per capirci.

Stavolta, però, la compartecipazione tocca persino l’immaginario collettivo, quel calderone che ci allieta e ci opprime in egual misura: Jake ammette di guardare troppi film, e la sua ragazza gli risponde che «Lo fanno tutti, è il male della società». Se è vero che il romanzo di Reid si avvicina all’horror verso l’epilogo, Kaufman lo sostituisce con il musical, una delle narrazioni popolari più “autoctone” d’America. Un genere che spesso idealizza il romanticismo, proprio come il cinema, le cui idee «artificiosamente pessime» proliferano nelle nostre menti fino a sostituire «le idee vere». E allora, Sto pensando di finirla qui diventa un film sulle aspettative irrealistiche che il cinema stesso fa crescere in noi, relegandoci in una rassicurante auto-illusione di felicità. La satirica citazione finale è esemplare, in tal senso.

Il mondo là fuori, di contro, è pieno di orrore. Non i grandi orrori storici e metafisici, ma quelli minuti e quotidiani: le giornate sempre uguali, la paura di invecchiare, le brame insoddisfatte, la stanchezza dei propri doveri. Non è un caso se Kaufman e il direttore della fotografia Lukasz Zal (lo stesso di Ida e Cold War) decidono di comprimere i personaggi nell’aspect ratio a 4:3, che rende ancora più «tetra e opprimente» la bellezza del film. Ciò che ne deriva è un puzzle mentale di cui bisogna raccogliere i pezzi, attraversato da un senso di disagio che talvolta ha qualcosa di lynchano, ma ben presto sterza su atmosfere stralunate e paradossali, in linea con la poetica del regista. Meno compatto del romanzo, ma più enigmatico e votato all’irrazionale: un film che non si può risolvere in un’unica fruizione, e dimostra come Netflix – in mezzo a tante produzioni dimenticabili – sappia votarsi a un’intelligente politique des auteurs. Da vedere e discutere insieme.

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