Nel tentativo di variare il più possibile la sua offerta, Netflix si trucca da Disney Channel e trova un suo personale High School Musical in Julie and the Phantoms, remake americano dell’omonima serie brasiliana. La mano di Kenny Ortega, in effetti, influenza pressoché ogni aspetto della produzione, dando luogo a uno show molto diverso dagli altri originali Netflix, anche nel target demografico.
La trama di Julie and the Phantoms comincia nel 1995. A Los Angeles, un’ambiziosa band di adolescenti chiamata Sunset Curve sta per esibirsi all’Orpheum, locale molto ambito della città. Tre di loro, però, muoiono per un’intossicazione alimentare dopo aver mangiato un hot dog.
Saltiamo al 2020: Julie (Madison Reyes) è una ragazzina che ha perso la madre, e vive con il padre Ray (Carlos Ponce) e il fratellino Carlos (Sonny Bustamante). Molto dotata per la musica, Julie ha smesso di suonare e cantare dopo la morte della mamma. Un giorno, tra le sue cose trova un cd dei Sunset Curve. Non appena comincia ad ascoltarlo, davanti a lei appaiono i tre ragazzi deceduti nel ’95: Luke (Charlie Gillespie), Alex (Owen Joyner) e Reggie (Jeremy Shada). Sono fantasmi, e Julie è l’unica in grado di vederli.
Ancora profondamente legati alla loro musica, Luke, Alex e Reggie diventano visibili al resto del mondo solo quando suonano. Notano subito il talento di Julie, e le propongono di unirsi al gruppo. Con l’aiuto della sua migliore amica Flynn (Jadah Marie), la giovane musicista e i tre fantasmi inseguono i loro sogni di successo, ma forze esterne minacciano di dividerli…
Come si diceva all’inizio, è inevitabile pensare ai prodotti targati Disney Channel di fronte a una serie come Julie and the Phantoms. Il co-regista Kenny Ortega porta in dote un codice visivo molto specifico, fatto di colori brillanti e caramellosi, abiti sgargianti e poco realistici, votati a una stilizzazione estetica che coinvolge anche le ambientazioni. Stesso discorso per il linguaggio: l’umorismo innocuo e il melodramma si alternano con naturalezza, in una storia formativa che guarda soprattutto al pubblico pre-adolescente. Non a caso, l’impostazione dei personaggi rievoca il classico immaginario delle teen-comedy, con tanto di ape regina nel ruolo di antagonista (la Carrie di Savannah Lee May) e un corteo di mean girls alle sue spalle.
La musica è ovviamente centrale. Ogni episodio – della durata di circa 30 minuti – comprende almeno un paio di esibizioni canore: i brani sono gradevoli, spesso finalizzati a esaltare l’empowerment del singolo, fedele a un individualismo tipicamente americano che asseconda la retorica dei social network. Canzoni che puntano un po’ troppo a farsi “inno”, dove le performance giocano molto sul crescendo emotivo e sull’intesa tra Julie e Luke. In generale, le esibizioni funzionano meglio quando abbracciano in pieno il lato surreale del musical, svolgendosi sul piano del desiderio o della fantasia.
Al di là di questo, Julie and the Phantoms ha certamente il merito di raccontare una storia compatta, in grado di guadagnarsi progressivamente l’affetto per i personaggi. Talvolta riesce a sfiorare le giuste corde emotive (come nella toccante Unsaid Emily), in altri casi risulta stucchevole, ma senza mai oltrepassare i limiti. Non convince del tutto la costruzione del mondo spettrale, governato da regole poco chiare: è fin troppo palese che gli sceneggiatori abbiano voluto agevolare certi passaggi narrativi, senza dare molte spiegazioni su alcuni eventi cruciali.
Peccato anche per la timidezza con cui viene messa in scena la potenziale liaison omosessuale tra Alex e un altro fantasma, Willie, interpretato da Booboo Stewart. Netflix è solitamente più coraggiosa nella rappresentazione LGBTQ+, mentre stavolta l’eredità di Kenny Ortega potrebbe aver pesato sull’esito finale. Comunque, l’epilogo lascia aperta la porta per un’altra stagione: vedremo se la piattaforma on-line deciderà di continuare.