Il processo ai Chicago 7, la clownerie contro il potere

Il processo ai Chicago 7, la clownerie contro il potere

Di Lorenzo Pedrazzi

La legittimità “creativa” de Il processo ai Chicago 7 sarà materia di dibattito nelle prossime settimane, quando il film di Aaron Sorkin uscirà nelle sale cinematografiche e poi su Netflix, dal 16 ottobre. Ricostruire oggi lo storico processo a Abbie Hoffman, Jerry Rubin, David Dellinger, Tom Hayden, Rennie Davis, John Froines e Lee Weiner significa impostare un dialogo tra passato e presente, dimostrando come i meccanismi repressivi del potere tendano a ripetersi di epoca in epoca; ma farlo attraverso la commedia – approccio scelto da Sorkin – è un grosso rischio, poiché la serietà degli eventi stride con l’apparente leggerezza di questa soluzione.

Apparente, per l’appunto. Che la commedia possa affrontare tematiche grevi è fuori discussione, e in effetti Sorkin trova un equilibrio fra i diversi registri, che si alternano nell’arco del racconto per ottenere determinate reazioni nel pubblico. Il creatore di West Wing è abile a manipolare gli spettatori, è sempre stato bravo a farlo: trasmette pathos con i grandi monologhi, diverte con i dialoghi scoppiettanti, fa sognare con i discorsi utopistici, suscita indignazione quando mette in luce la corruzione del potere. Insomma, utilizza gli strumenti della Hollywood classica in funzione della propaganda liberal, all’insegna di un progressismo accorato ed enfatico. Il processo ai Chicago 7 gli permette di tornare al 1968, momento di aspri conflitti politico-sociali e proteste contro la guerra del Vietnam, quando il Partito Internazionale della Gioventù, gli Studenti per una Società Democratica e altri gruppi organizzano una manifestazione a Chicago durante la Convention dei Democratici. Pur essendo pacifica, la manifestazione viene attaccata senza ragione dalla polizia, sfociando in scontri violenti che portano ad accuse di cospirazione e incitazione alla sommossa contro i leader dei vari movimenti.

Il dibattimento che ne consegue è una farsa, non tanto per l’atteggiamento provocatorio di Abbie Hoffman e Jerry Rubin (emblemi della controcultura e della sinistra radicale), ma per il palese antagonismo del giudice Julius Hoffman, che arriva persino a far legare e imbavagliare Bobby Seale: il leader delle Pantere Nere, coinvolto solo per “spaventare” la giuria, non aveva nemmeno partecipato all’organizzazione della protesta, e infatti viene escluso dal processo. È proprio alla luce di questa natura farsesca che l’approccio di Sorkin trova una giustificazione, pur con tutti i suoi limiti. La sua sceneggiatura cavalca le provocazioni di Rubin e Hoffman per ricordarci che la clownerie è l’arma più antica contro il potere, e che la risata ne disinnesca ogni presunzione autoritaria. Come il fool shakespeariano si prendeva gioco dei potenti e dava voce all’autore stesso (senza dimenticare la figura del giullare di corte, unico autorizzato a dileggiare il sovrano), i personaggi del film usano l’ironia per allentare il giogo delle istituzioni, mettendone alla berlina gli atteggiamenti reazionari.

Ogni protagonista ha una personalità riconoscibile, e l’autore è bravo a gestirli tutti, ognuno con la propria funzione nell’economia della trama. Se Rubin talvolta eccede nel ruolo di spalla comica, Hoffman incarna proprio il retaggio del fool pensante, capace di far riflettere sia il pubblico sia i segugi del governo. Il suo dualismo con Tom Hayden – simbolo di quella sinistra “istituzionale” che vuole cambiare le cose dall’interno – è il fulcro drammaturgico del copione, l’ossatura che lo tiene in piedi. Il curriculum di Sorkin è decisamente più vicino alle posizioni di Hayden, ma qui non disdegna una certa simpatia per la rivoluzione hippie, da cui ricava lo sguardo insolente verso il potere. D’altra parte, non è un caso che il film si apra con gli omicidi di Martin Luther King e Bobby Kennedy: rappresentano la morte del “sogno”, che estremizza i toni della satira in reazione alla marea conservatrice.

Certo, Sorkin ha la tendenza a semplificare la caratterizzazione dei due schieramenti, con un manicheismo che poco si addice alla complessità umana: solo il procuratore Richard Schultz lascia trasparire delle sfumature, ma i suoi dubbi interiori restano un caso isolato e suonano artificiosi nel contesto dell’accusa, come un mero espediente per ammorbidire i “cattivi”. Il processo ai Chicago 7 resta però un validissimo esempio di cinema civile, peraltro valorizzato da attori che sanno tenere il ritmo di ogni battuta (Sacha Baron Cohen, Jeremy Strong), o gestiscono le emozioni con garbo e verosimiglianza (Joseph Gordon-Levitt, Mark Rylance, Michael Keaton, Yahya Abdul-Mateen II, John Carroll Lynch). Un cinema che guarda al passato meditando sul presente, per ricordarci che l’eterno ritorno della Storia: manifestazioni nelle strade, scontri con la polizia, richiami a “legge e ordine”, critiche borghesi verso la supposta “violenza” delle proteste… nulla di tutto questo è una novità degli ultimi mesi, le radici del fenomeno sono molto più datate.

Un film che fa venire voglia di andare là fuori e lottare per ciò che è giusto: come effetto non è niente male.

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