Tenet, in senso inverso: la recensione del film di Christopher Nolan

Tenet, in senso inverso: la recensione del film di Christopher Nolan

Di Lorenzo Pedrazzi

Il tempo è fuor di squadra.
Che maledetta noia essere nato per rimetterlo in sesto.

Questa citazione dell’Amleto, con un po’ di elasticità, si potrebbe applicare anche al protagonista di Tenet, l’agente senza nome interpretato da John David Washington. In realtà, l’intero cinema di Christopher Nolan osserva il tempo come un meccanismo da scomporre e riassemblare, accelerare o rallentare. Nei suoi film, Nolan imprigiona i personaggi in scatole temporali che determinano le loro azioni: scorre in modo diverso a seconda della dimensione in cui si trovano (Inception, Interstellar), governa le loro sorti come una divinità imparziale (Dunkirk), si riavvolge per inseguire la memoria (Memento), oppure si frammenta per confondere i legami di causa-effetto (Batman Begins).

Proprio quest’ultima relazione logica è al centro di Tenet, ma sortisce risultati molto diversi. Senza svelare nulla che non sia già presente nei trailer, vi basti sapere che il “protagonista” deve scongiurare una minaccia globale basata sull’inversione, un mistero della fisica che inverte l’entropia degli oggetti. Questo lo porta a esperire la realtà con occhi nuovi: se è possibile vedere l’esito di un evento prima che accada, allora qual è la causa? E qual è l’effetto? Il protagonista, insomma, vive il tempo in modo non lineare, rievocando un tòpos della fantascienza che ha già dimostrato la sua grandezza in opere come Mattatoio n°5 o Arrival. Certo, l’espediente di Tenet è forse più simile a In senso inverso di Philip K. Dick, ma Nolan ovviamente lo rielabora a modo proprio.

Messo a confronto con la non-linearità del tempo, l’eroe del film reagisce come uno spettatore davanti ai film del regista inglese: dapprima è disorientato, poi raggiunge l’epilogo e afferra il filo del discorso. Non che questa interpretazione metacinematografica sia voluta, eppure fa riflettere. In fondo, spesso le opere di Nolan rivelano la propria vera natura solo nelle ultime inquadrature, quando il film assume una compiutezza inaspettata. Vale anche per Tenet, e la comprensione (magari generale, non dettagliata) del fruitore corrisponde a quella del protagonista. Forma e contenuto da sempre coincidono nella poetica del cineasta, e Tenet non fa eccezione. D’altra parte, l’anonimia di John David Washington non è casuale, in un film dove i nemici sono talvolta citati solo come “antagonisti”.

E allora, forse la lettura metanarrativa non è così balzana: Nolan gioca con un genere che ama moltissimo – lo spionaggio di 007 – e ne ribadisce la filosofia individualistica, secondo cui non è vero che “uno vale uno”. Tenet non è altro che il percorso formativo di un personaggio per scoprire la sua centralità nella vicenda, ovvero – per l’appunto – il suo ruolo di “protagonista”. Non è un processo di natura mentale, la presa di coscienza non avviene per mezzo di una maturazione psicologica, ma tramite l’azione pura e le scelte che comporta. Torna così l’inossidabile razionalismo del cineasta inglese, che peraltro si riflette sul suo amore per le architetture brutaliste e le strutture labirintiche. A contare, per lui, non sono tanto i personaggi e le loro interazioni (talvolta goffe negli eccessi drammatici), quanto gli obiettivi da compiere all’interno di un quadro generale. Il fare, più che il sentire. Se alcuni dialoghi sono didascalici, è perché Nolan sa bene di aver costruito il suo film più contorto, e cerca di sbrogliare la matassa con il ragionamento, con la fredda e controllata esposizione dei fatti. Magari non sempre ci riesce, ma non è difficile apprezzare il suddetto quadro generale.

Di fatto, Tenet riesce a rinfrescare un genere che troppo spesso rimastica le solite trame, e che invece qui – grazie alla contaminazione con la fantascienza – trova un respiro nuovo, per quanto molto cerebrale. Gli scontri adottano strumenti innovativi, poiché eliminano i punti di riferimento consueti: nelle colluttazioni, negli inseguimenti e nelle sparatorie c’è sempre il dubbio su cosa sia successo prima e cosa dopo. Un lavoro complesso e raffinato sulle coreografie, in parte mai visto, offre una prospettiva tutta nuova sull’azione stessa, che si sviluppa in conflitto con le nostre più basilari nozioni fisiche. Così, Nolan si conferma uno dei pochissimi registi in grado di reinventare i colossal hollywoodiani, raro caso di cinema d’autore dal budget multimilionario. Un cinema popolato di eroi che fuggono dal tempo, lo inseguono o cercano di ripararlo.

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