Cursed, il Ciclo Arturiano rivisto alla luce del presente | Recensione

Cursed, il Ciclo Arturiano rivisto alla luce del presente | Recensione

Di Lorenzo Pedrazzi

Se è vero che i miti si rinnovano di generazione in generazione, adattandosi alla temperie socio-culturale di ogni epoca, allora una serie come Cursed non può certo sorprendere per la libertà con cui traspone il Ciclo Arturiano. In tal caso, poi, l’omonimo libro di Tom Wheeler e Frank Miller rimanda a un’operazione cross-mediale che Netflix compie sempre più spesso, all’insegna di un marketing integrato e polifonico: libro, serie tv e persino un brano musicale.

L’obiettivo è rivolgersi direttamente al pubblico giovane, adottandone il linguaggio e i riferimenti popolari. La stessa Katherine Langford è un volto già riconoscibile presso gli adolescenti grazie a 13 Reasons Why e Tuo, Simon, e qui viene chiamata a restituire quel misto di fragilità e determinazione che è il personaggio di Nimue, la Dama del Lago. Della cosiddetta Materia di Bretagna – o quantomeno delle sue storie più celebri – Cursed è una sorta di prequel, fedele alla tendenza (forse un po’ abusata) di raccontare le origini del mito per inquadrarlo da una prospettiva diversa.

Nimue appare infatti come una giovane donna, gravata da un potere misterioso che deriva dagli dei occulti, e di cui persino la sua gente – i Fey – ha paura. La minaccia più grande arriva però dall’esterno: la Chiesa di Roma, tramite i Paladini Rossi dello spietato Padre Carden (Peter Mullan), sta razziando i villaggi Fey, decisa a sradicare ogni creatura “pagana”. Intanto, il re Uther Pendragon (Sebastian Armesto) è preoccupato per la salute del regno, e chiede a Merlino (Gustaf Skarsgård) una soluzione alla siccità. Il mago ha ben altro cui pensare, essendo privo di poteri da tempo. Quando anche il villaggio di Nimue viene distrutto, la ragazza riceve dalla madre un’antica spada: si tratta ovviamente di Excalibur, da consegnare al più presto a Merlino. Sulla strada incontrerà un giovane mercenario chiamato Artù (Devon Terrell), mentre i Paladini Rossi e l’invincibile Monaco Piangente (Daniel Sharman) le danno la caccia.

È chiara fin dall’inizio la contrapposizione tra una Chiesa oscurantista e un “paganesimo” più legato alla natura, assediato da una supposta idea di “civiltà” e salvazione. Non è difficile leggervi l’antico terrore medievale per la natura, emblema dell’ignoto e di oscuri pericoli: il papato romano ambisce a omogeneizzare i territori stranieri, esorcizzando il timore sopracitato con un’altra paura, quella del potere divino. Nimue ed Excalibur rappresentano quindi un potere culturalmente più antico, una forza di origine ancestrale – e meno corrotta dall’uomo – che mette in discussione l’esistenza stessa della Chiesa.

Il principio alla base di Cursed, insomma, sarebbe anche intrigante, ma Tom Wheeler e la sua squadra di sceneggiatori non fanno molti sforzi per sottrarsi ai modelli preesistenti. La caratterizzazione della protagonista, ad esempio, è estremamente piatta: Nimue è la solita eroina perseguitata dai suoi poteri (con tanto di immancabile battuta «Non è un dono, è una maledizione»), ma non c’è traccia di un vero conflitto interiore, e ogni sua impresa rievoca un cliché. Anche il suo percorso formativo da reietta a regina è troppo semplicistico, teleguidato frettolosamente dagli autori senza ponderare ogni singolo passo. Il paragone più immediato viene da Game of Thrones, dove Daenerys compie un viaggio molto più lungo e articolato prima di diventare sovrana, a parte l’affrettata discesa finale nella pazzia. Anche per questa ragione, il coinvolgimento è scarso: si fatica a empatizzare con i personaggi, e i comprimari non sono molto meglio.

L’aspetto più godibile risiede forse nello scoprire dietro quali identità si celano le figure del mito, da Morgana ai futuri cavalieri della Tavola Rotonda. Cursed non svela subito tutte le sue carte, anche perché rivisita i Cicli Arturiani alla luce del presente, con una sensibilità diversa che ribalta i rapporti di forza: Excalibur – lo dice anche la tagline – sceglie una regina, non un re; Artù è mulatto, mentre gli orientamenti sessuali sono più variegati rispetto alle vecchie letture del mito. Gli stessi Fey – tra i quali esistono anche società matriarcali – sono facilmente avvicinabili a quelle “minoranze” tuttora oggetto di oppressione e discriminazione, con la Chiesa a rappresentare il potere maschile bianco. Insomma, una rilettura intrisa di woke culture che mira giustamente a promuovere varietà, inclusione e giustizia sociale.

Il punto, però, è che la serie dissipa le sue premesse in un racconto prevedibile, preoccupandosi solo di far apparire esteticamente accattivanti gli eroi e gli antagonisti della storia. Non aiuta il fatto che la produzione manchi di respiro epico, dovuto anche (ma non solo) ai limiti di budget: le scene migliori sono quelle che sfruttano i paesaggi naturali, poiché le numerose scenografie ricostruite in studio hanno un sapore artefatto. La CGI, inoltre, è di qualità discutibile, e gli ettolitri di sangue in CGI flirtano solo superficialmente con il genere sword and sorcery. Dopo The Witcher e Luna Nera, Netflix conferma di non avere un gran feeling con il genere fantasy: l’effetto generale è ancora una volta piuttosto datato.

D’altra parte, l’azione scarseggia nella prima metà della stagione, e solo nella seconda c’è più movimento. L’ultimo episodio è il più godibile, per quanto goffo in alcuni frangenti: il caotico “tutti contro tutti” è perlomeno divertente da vedere, e dimostra che la serie farebbe meglio a giocare sulla pura spettacolarità, sui combattimenti e le magie. Le sfumature psicologiche non le riescono bene, e i personaggi non esercitano un fascino abbastanza intenso. Per il momento, più che la seconda stagione, viene voglia di rivedere Excalibur di John Boorman… ma evidentemente non era questo l’effetto desiderato dagli autori.

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