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Space Force, satira militare nell’era Trump: la recensione della serie

Pubblicato il 27 maggio 2020 di Lorenzo Pedrazzi

Se la realtà diventa più ridicola della parodia, quest’ultima deve compiere sforzi sovrumani per conservare il proprio valore. Space Force nasce proprio da qui: quando Donald Trump decide di creare l’eponima branca delle forze armate, il nome stesso – e il concetto cui si riferisce – suscita una tale ilarità da spingere Steve Carell e Netflix a realizzare uno show sull’argomento. L’attore coinvolge Greg Daniels, ideatore della versione americana di The Office, e il risultato è una workplace comedy che rilegge la vecchia tradizione della satira militare sotto lo sguardo stralunato (ma non disilluso) del nostro presente.

Chi si aspetta di vedere un clone spaziale di The Office è ovviamente fuori strada, anche perché Carell e Daniels si allontanano sia dalla caratterizzazione di Michael Scott sia dai toni umoristici della sit-com NBC. Più che una “commedia dell’imbarazzo”, questa è infatti una “commedia dell’incompetenza”, come accade spesso nelle satire istituzionali. Cambiano però i tempi, e anche il posto degli americani nel mondo ne esce ridimensionato: Space Force deve infatti misurarsi con una realtà in cui gli U.S.A. vengono tranquillamente superati da paesi come India e Cina, i cui programmi spaziali corrono a velocità maggiori. L’idea stessa di militarizzare lo spazio è grottesca, un goffo tentativo di reclamare la proprietà di un orizzonte che, dopo l’allunaggio del 1969, è stato per anni di dominio americano.

Non a caso, proprio il ritorno sulla Luna è al centro della serie: il pluridecorato generale Mark R. Naird (Steve Carell) viene messo a capo della neonata Space Force con l’obiettivo di stabilire un insediamento sul nostro satellite, e deve trasferirsi in Colorado con la famiglia per gestire le operazioni. La figlia Erin (Diana Silvers) ha nostalgia di Washington e fatica ad ambientarsi, mentre la moglie Maggie (Lisa Kudrow) non può stargli vicino. Lo stesso Mark non è entusiasta dell’incarico, ma esegue gli ordini senza fiatare, come ha sempre fatto. A tal proposito, la costruzione del personaggio è molto chiara fin dal principio: un militare rigido ma non insensibile, tradizionalista ma non reazionario, che si concede riti bizzarri per sfogare la tensione. La scrittura non manca di contraddizioni (talvolta Mark scivola in comportamenti irrazionali che stridono con la sua personalità), ma è giustificabile nei termini dell’assurdo, del surreale. Carell e Daniels cercano di restituire l’immagine di un’istituzione costruita sul nulla, come puro capriccio di un Presidente che cerca di sviare l’attenzione dai problemi interni. L’idea di suggerirne la presenza solo attraverso i suoi ridicoli SMS, senza mai mostrarlo apertamente, è semplice ma brillante: si tratta di Trump, lo capiamo dal tono e dal contenuto dei messaggi, eppure non viene mai citato per nome.

Attorno a Mark ruota un cast di personaggi sufficientemente caratterizzati, a partire dal Dr. Adrian Mallory del delizioso John Malkovich, la cui flemma viene messa sempre più a dura prova nel corso della stagione. Ci sono poi il petulante social media director Fuck Tony (Ben Schwartz), la goffa ma dotata elicotterista Angela Ali (Tawny Newsome), il sarcastico Dr. Chen Kaifang (Jimmy O. Yang), l’imbranato generale Brad Gregory (Don Lake) e una costellazione di alti ufficiali che mettono il fiato sul collo di Mark, o bullizzano la Space Force e i suoi membri. Il più minaccioso è il generale Kick Grabaston (Noah Emmerich) dell’Air Force: lui e Mark si punzecchiano come i capitani di due squadri rivali, riproponendo certe dinamiche sociali dell’adolescenza. La simulazione di una battaglia sulla Luna tra i due rami dell’esercito è il vertice di questo antagonismo, e gioca sulla sostanziale immaturità del potere. Difficile non pensare alla partita di football finale in M*A*S*H, per associazione.

Tale satira si avvale di una produzione sorprendente per una serie comica, con valori tecnici di alto livello anche nella grafica digitale. A fronte di una confezione così scintillante, però, è un peccato che si rida soprattutto a denti stretti, lasciando l’impressione che Space Force sia un prodotto in evoluzione (come la prima stagione di The Office, d’altra parte). Lo show si poggia davvero su un’idea singola – anzi, sul nome stesso dell’agenzia – e talvolta fatica a darle spessore, pur essendo ben calata nello scenario politico contemporaneo. Si nota più che altro un po’ di indecisione nei toni: non sempre le gag vanno a segno, e le vaghe sfumature melò cozzano con il registro comico-grottesco, peraltro abbracciato appieno solo in alcuni frangenti. Non aiuta, poi, il fatto che certi snodi narrativi risultino fin troppo affrettati (come il passaggio alla missione nell’ultimo episodio), e che le implicazioni globali degli eventi siano totalmente ignorate: insomma, si parla dei primi insediamenti umani sulla Luna, ma sembra che non importi a nessuno.

Steve Carell, comunque, è il solito trasformista dal talento cristallino, e anche qui riesce a caratterizzare il personaggio con la “semplice” inflessione vocale e la mimica facciale: un grande attore, che merita maggiori riconoscimenti. Inoltre, la creatività di alcune soluzioni visive e narrative fa ben sperare per l’eventuale seconda stagione, a cui gioverebbe valorizzare ancora di più lo humor surreale, tipico di alcune fra le più grandi commedie americane (satira militare compresa). I valori produttivi ci sono, e anche i talenti dietro la macchina da presa non mancano: due episodi – compreso il primo – sono diretti dal Paul King di Paddington, mentre il sesto e il settimo possono contare sulla Dee Rees di Mudbound. Un’interessante base di lancio per l’eventuale seconda stagione.