E pensare che David Lynch non voleva nemmeno girarla una serie televisiva. Il successo di Velluto blu gli aveva aperto numerose possibilità, ma i due film su cui stava lavorando con Mark Frost – un biopic su Marilyn Monroe e One Saliva Bubble con Steve Martin – non erano riusciti a superare la fase di scrittura: fu in quel momento che il suo agente Tony Krantz gli suggerì di realizzare uno show per la televisione. Lynch rispose che non era interessato a una cosa del genere, ma Krantz gli spiegò che poteva utilizzare il mezzo seriale per raccontare la sua visione dell’America, un po’ come aveva fatto in Velluto blu. Lynch allora pensò a una storia ambientata in una piccola città, e cominciò a rifletterci con Frost, pur senza un grande entusiasmo. Quest’ultimo aveva un’idea abbastanza precisa: mettere in scena le vite di molteplici personaggi racchiusi in un’area contenuta, senza porsi limiti di durata.
È questo il nucleo da cui si sviluppa Twin Peaks, la serie tv più rivoluzionaria nell’emancipazione “artistica” del piccolo schermo. Lynch e Frost fanno fatica a convincere la ABC a ordinarne una prima stagione, ma ci riescono grazie all’aiuto di Bob Iger (che in seguito sarebbe diventato CEO della Disney). L’esito finale riflette molte delle idee su cui gli autori stavano lavorando in principio, soprattutto il contesto della piccola città e l’approccio corale: tra le montagne boscose dello stato di Washington, il ritrovamento del cadavere di Laura Palmer porta a galla i segreti della comunità, di cui scopriamo sia le virtù (poche) sia i vizi (tanti).
Lynch dirige l’episodio pilota e sembra impostare la serie come un murder mystery, ma è solo un’apparenza: il mistero dell’omicidio di Laura – strombazzato dalle emittenti televisive con la tagline “Chi ha ucciso Laura Palmer?” – passa gradualmente in secondo piano, e il focus del racconto si concentra sull’eponima cittadina, che condensa le dinamiche sociali di un’interna nazione. L’arcano viene effettivamente risolto nel corso della seconda stagione, ma intanto gli enigmi si moltiplicano, e Twin Peaks diventa un rompicapo in cui dimensioni parallele, visioni oniriche e presenze demoniache tolgono i punti di riferimento più canonici. La soluzione del mistero, fortemente voluta dalla ABC, non giova però agli ascolti: gran parte del pubblico perde interesse nella storia, la rete cambia troppo spesso la collocazione della serie nel palinsesto settimanale (anche a causa della Guerra del Golfo), e il cliffhanger dell’ultimo episodio non suscita l’interesse sperato. Twin Peaks viene quindi cancellata, ma Lynch rimette piede nella cittadina per due volte: nel 1992 con il film Fuoco cammina con me, e nel 2017 con il revival della serie.
La brusca cancellazione dello show, comunque, non ne diluisce l’effetto dirompente sul panorama televisivo. Oggi siamo abituati a serie con valori produttivi di livello cinematografico, che coinvolgono registi affermati della Settima Arte, ma nel 1990 la situazione era ben diversa. Twin Peaks è infatti la prima serie tv “d’autore”, cioè la prima da cui traspaiono uno stile e una poetica ben riconoscibili, peraltro con una qualità fotografica degna di un lungometraggio. Lynch non rinuncia affatto alle sue ossessioni, non le annacqua per il piccolo schermo, ma trova nuove strade per esplorarle. In parole povere, Twin Peaks è “lynchiana” tanto quanto i suoi film, almeno negli episodi diretti da lui. L’acuta definizione che ne diede David Foster Wallace ci viene ancora in aiuto: “[Lynchiano] si riferisce a un particolare tipo di ironia dove il molto macabro e il molto banale si combinano in maniera tale da rivelare la costante presenza del primo all’interno del secondo”.
Lo show attinge ai tòpoi del genere investigativo, ma li contamina con l’assurdo, la soap opera, il fantastico e soprattutto il grottesco. Come in molti suoi film, si ricava spesso l’impressione che i personaggi reagiscano in modo moralmente o emotivamente sbagliato di fronte a circostanze tragiche e/o violente, contravvenendo alle aspettative del pubblico e alla sua ossessione per la “norma” (o, più nello specifico, per la restaurazione della normalità, obiettivo finale di ogni giallo). Lynch non è interessato al poliziesco sul piano tematico, ma solo dal punto di vista strutturale, ed è per questo motivo che in origine non voleva nemmeno risolvere l’omicidio di Laura Palmer; non a caso, ritiene che quella soluzione forzata abbia “ucciso” lo show. Analogamente, l’eroe di turno non è un investigatore tradizionale. Più che soggetto d’azione, l’agente Dale Cooper di Kyle MacLachlan è infatti un soggetto della percezione: insegue il mistero anche nelle sue diramazioni sovrasensibili, dà fiducia ai sogni e all’inconscio, si lascia sbalordire dal meraviglioso.
Twin Peaks è, di fatto, una summa di manie e fissazioni tipicamente lynchiane: dalla sua passione per i contesti industriali (la segheria Packard) a quella per i piccoli piaceri quotidiani (il caffè e la torta del Double R Diner), dalla meditazione trascendentale (i metodi di Cooper) alla moralità naïf (gli abusi di alcol e droga accostati alla minaccia primigenia del Male). Proprio la sua mano autoriale dimostra la possibilità di interpretare il mezzo televisivo in modo diverso dai soliti schemi ricorrenti, esulando dalla mera funzionalità delle storie. Se nella serie tv “media” ogni elemento concorre alla risoluzione finale della trama, senza deviazioni di sorta, Twin Peaks parcellizza invece il racconto in una molteplicità di suggestioni: non tutto è spiegabile, non tutto è “utile”, e questo entra in conflitto con il disperato pragmatismo della cultura americana. Lynch lascia aperta la porta all’irrazionale, ma anche al bello nella sua forma più spontanea. L’attrice Mädchen Amick, che interpreta Shelly nella serie, racconta questo episodio in Room to Dreams, la biografia del regista:
C’è una scena in cui sono al telefono, e David all’improvviso mi dice, “Mädchen, vorrei che tu lasciassi vagare i tuoi occhi molto lentamente verso il soffitto. Lentamente, lasciali vagare verso l’alto, continua, continua, continua” – poi “Stop!”. Gli chiedo, “David, per quale motivo ho dovuto fare così?”. E lui dice, “È semplicemente bello da vedere”.
Questa emancipazione dalla tirannia della trama, questa libertà espressiva che non necessita di giustificazione logica, si riflette tuttora in molti show contemporanei. Serie come The Leftovers e Fargo non esisterebbero se non fosse per Twin Peaks, o quantomeno sarebbero molto diverse. Il discorso viene portato alle estreme conseguenze nel bellissimo revival del 2017, dove Lynch dimostra di essere ancora più avanti rispetto alle notevoli evoluzioni del linguaggio televisivo. Continuando un percorso già tracciato da Inland Empire, il cineasta abbandona definitivamente l’idea di una sceneggiatura chiusa, e mette in scena l’esplosione dell’inconscio in un’epopea straordinaria, ricca di diramazioni e sfaccettature: un ground zero di cui è quasi impossibile ricostruire ogni singolo detrito, o ricondurlo a una narrazione unitaria.
L’inevitabile conclusione – ammesso che sia davvero la conclusione – è un grido agghiacciante e disumano, che risveglia un terrore ancestrale: l’unica reazione sensata di fronte all’abisso.