SerieTV Recensioni

Westworld 3, la libertà è un’illusione collettiva: recensione dei primi episodi

Pubblicato il 16 marzo 2020 di Lorenzo Pedrazzi

Dallo sviluppo del pensiero cosciente fino alle ambiguità identitarie dei protagonisti, Westworld ha sempre riflettuto sul problema del controllo e di chi lo esercita, dove l’autodeterminazione di se stessi è un processo illusorio che rientra in uno schema ben più ampio e predeterminato. Non sorprende, quindi, che la terza stagione prosegua sul medesimo solco, ma espandendone la portata sul mondo intero, quello degli umani: il nostro, insomma.

La serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy ha già dimostrato la sua attitudine al cambiamento, consapevole che una narrazione orizzontale debba essere in evoluzione costante per sopravvivere alla prova del tempo. Ma, se la seconda stagione era un “avanzamento” della prima, la terza stravolge completamente lo status quo: ora gli host sono fuori dal parco, quindi la situazione è ribaltata; gli ospiti sono loro, e devono adattarsi alle logiche politico-sociali che governano il regno degli uomini. Si tratta di un mutamento radicale che coinvolge ogni aspetto della produzione, dalle scenografie ai costumi, rivoluzionando anche l’iconografia dei personaggi. Ormai non siamo più in una simulazione del vecchio West, i colori caldi e terrosi di Sweetwater sono sostituiti dalle fredde geometrie futuristiche dei nuovi agglomerati urbani, dominati dai toni del vetro e del metallo. San Francisco e le altre metropoli del futuro, peraltro, sono un patchwork di edifici avveniristici prelevati da altre località: clamoroso e straniante il caso della Città delle Arti e delle Scienze di Valencia, che viene ricollocata in California come sede della Delos. Tipico esempio di appropriazione geografico-culturale, che la dice lunga sulla facilità con cui l’immaginario americano tende ad assimilare il resto del pianeta.

ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER SUI PRIMI QUATTRO EPISODI

È questo il contesto in cui si muove Dolores (Evan Rachel Wood), ora in eleganti abiti civili mentre esplora il jet set losangelino. Dopo aver costretto un ex azionista di Delos a cederle le sue quote di Incite, una nuova società di ricerca sull’intelligenza artificiale, Dolores si avvicina a Liam Dempsey Jr. (John Gallagher Jr.), figlio del co-fondatore della compagnia. L’agguerrita host cerca informazioni su Rehoboam, una complessa IA per la pianificazione strategica che è stata sviluppata proprio da Incite. Senza fare spoiler, questa IA si rivela essere uno dei punti cardine della stagione, almeno stando agli episodi che ho visto in anteprima (i primi quattro). Jonathan Nolan aveva già lavorato su un’idea molto simile in Person of Interest, ma qui l’ambientazione futuristica amplifica ulteriormente il potere della “macchina”, al punto da mettere in dubbio persino il libero arbitrio degli esseri umani.

Quella di Westworld 3, insomma, non è solo una battaglia per il dominio della Terra e la costruzione di un mondo nuovo: gli showrunner guardano infatti al nostro presente per riflettere sull’illusione della libertà e del controllo, che ci sfuggono dalle mani mentre cediamo i nostri dati personali alle grandi multinazionali. Quegli stessi dati sono tracce di noi che vanno a costituire un modello psicologico e comportamentale, rendendoci trasparenti e prevedibili come automi pre-programmati. Siamo noi stessi gli host del mondo in cui viviamo? In un certo senso, questo è il fulcro del discorso: la “macchina” conosce il nostro passato, stabilisce il nostro presente e prevede il nostro futuro. Difficile immaginare una vera libertà, in tale scenario.

A fronteggiarsi sono quindi i punti di vista conflittuali – ma parimenti utopisti – di Dolores e Serac (Vincent Cassel), il demiurgo di Rehoboam. L’idea, comunque, è sempre quella di togliere il destino della Terra dalle mani dell’uomo, “il peggior nemico di se stesso”, capace solo di distruggere il pianeta e il proprio futuro. Nulla di nuovo, intendiamoci, ma Nolan e Joy amalgamano la riflessione in un racconto non troppo manicheo, dove ogni personaggio è guidato da motivazioni comprensibili: il bene e il male si fondono in una zona grigia, e le psicologie confermano la loro fluidità. Se Bernard (Jeffrey Wright) resta fedele alla sua “umanità”, gli altri rimettono in discussione i propri valori di fronte agli incontri che la vita pone sul loro cammino. La stessa Dolores, ad esempio, socchiude la porta al mondo degli uomini quando incontra Caleb (Aaron Paul), ex militare perseguitato da un trauma infantile e dalla perdita di un commilitone: è il primo umano con cui riesce a empatizzare, e forse anche il primo con cui il pubblico stesso può provare il medesimo sentimento. Anche l’host che sostituisce Charlotte (Tessa Thompson) vive nuovi stati d’animo legati alla sua situazione familiare, scoprendo quanto possa essere sfaccettata l’esperienza della realtà esterna.

I primi quattro episodi ovviamente non bastano a dipingere un quadro esaustivo della terza stagione, ma dimostrano la disponibilità di Westworld a cambiare pelle, attribuendo un significato nuovo anche al suo titolo: il “west” non si riferisce più alla mitica frontiera, bensì a tutto il mondo occidentale, che fabbrica i prodromi della sua stessa caduta. La sensazione è di assistere a una stagione meno complessa ed enigmatica, ma proiettata più direttamente verso il nucleo del discorso (e la prossima resa dei conti). A non convincere fino in fondo è la costruzione urbana e scenografica del futuro: non solo per l’appropriazione geografico-culturale di alcuni luoghi iconici, ma per l’idea stessa di proporre un futuro composto da architetture del passato, messe insieme solo per il loro alone avveniristico. Questo paradosso genera effetti stranianti, e stona con l’anima di una serie che medita su transumanesimo, singolarità tecnologica e altri argomenti di primaria importanza nei prossimi decenni.