Da qualche tempo mi sono lanciato – involontariamente, lo ammetto – in uno strano esperimento. Prima che Star Trek: Picard debuttasse su Prime Video, ho deciso di iniziare timidamente la visione di Star Trek: The Next Generation, caricato per intero su Netflix. Le frasi che mi ripetevo a rotazione nella testa erano: “Inizio a prepararmi”, “Vedo com’è” e “Se mi rompo le scatole, mollo”.
Perché TNG viene da un’altra era. Un’era in cui la televisione viveva di storie auto-conclusive, di puntate settimanali in cui tutti i guai dei protagonisti dovevano concludersi per contratto entro 45 minuti, a meno che non fossero finali di stagione (e anche lì non è che fosse obbligatorio il cliffhanger). Era l’epoca, insomma, delle serie “verticali”: alla fine di ogni puntata lo status quo si resettava e ogni episodio raccontava una storia a se stante, a parte qualche minimo cambiamento nella continuity.
Era un concetto che mi spaventava. Oggi siamo abituati alle serie serializzate, “orizzontali”, che sono praticamente lunghi film (e lo sono diventate ancora di più adesso con l’avvento dello streaming). Un paio di anni fa avevo tentato il recupero di Star Trek, la serie classica, ma mi ero rassegnato a vedere solo gli episodi più famosi. Stavolta, mi son detto, o tutto o niente. Ed è stata una rivelazione.
Ora. Non sono mai stato completamente a digiuno di Star Trek. Ho sempre guardato i film, quelli con il cast classico soprattutto, e li ho sempre apprezzati. Star Trek IV, alias Rotta verso la Terra, è da sempre uno dei miei film preferiti. A posteriori, però, mi rendo conto del perché: è l’unico capitolo cinematografico della saga che si astrae completamente dal contesto per virare il tutto in una commedia degli equivoci sui viaggi nel tempo. Traduzione: non serve essere Trekkers per amare Spock che stende il punk rumoroso in autobus con la sua famosa stretta al collo.
Vedere i film di Star Trek e affrontare le serie TV sono però due cose ben diverse. I film, proprio perché destinati alle sale e dunque, potenzialmente, a un pubblico molto più vasto e non composto da soli fan, devono spingere più sul pedale dell’azione e scartare molta della “ciccia” che rende Star Trek tale: le parole. Si parla tantissimo in Star Trek e Star Trek: The Next Generation. Si disquisisce di questioni filosofiche e tecniche. È fantascienza nel vero senso della parola: uno sguardo su un futuro che è specchio deformante del nostro presente. È materiale spesso complesso, cervellotico. Non immediato, insomma.
Una volta superato l’ostacolo, però, vi si aprirà un mondo di tesori oltre ogni immaginazione. La maggior parte delle puntate si pone davvero domande fondamentali sulla natura umana, e tenta di risolverle senza mai dare risposte banali. E il problema delle puntate auto-conclusive si è rivelato, almeno per me, un non-problema. Anzi, mi ha riportato indietro a un’epoca in cui questa struttura era la norma. Ed è rassicurante, rilassante, piacevole. La vita potrà anche prendervi a mazzate nei denti, ma, quando vi sintonizzerete su TNG, saprete di trovarvi in un luogo in cui i problemi vengono risolti sempre.
Francamente mi sono innamorato di ogni singolo personaggio, e nel mio cuore c’è un posto speciale per il tenente comandante Data, la cui costante ricerca dell’umanità è commovente e illuminante. Ed è solo vedendo la serie classica e TNG che si può apprezzare davvero lo sforzo di Gene Roddenberry nel dipingere l’affresco di un futuro utopico, in cui la specie umana ha superato i propri limiti, le motivazioni bieche, le disparità sociali e di genere, per creare una società equa e giusta. In cui non esistono più nemmeno i conflitti tra colleghi: tutti i conflitti, in TNG, provengono dall’esterno e sono banditi dalla crew dell’Enterprise. Su questo dettame Roddenberry ha edificato la bibbia della serie e lo ha imposto in maniera talmente ferrea da inimicarsi alcuni degli sceneggiatori della prima stagione. Ma alla fine aveva ragione lui, ed è un messaggio di rara potenza ancora oggi, soprattutto in questo strano e un po’ spaventoso momento che stiamo vivendo, in cui l’individualismo rischia più che mai di essere la nostra rovina.
Certo, poi i conflitti tra personaggi sono rientrati dalla finestra dopo la sua morte, in serie come Deep Space Nine e nelle recenti Discovery e Picard. È inevitabile e in qualche modo necessario, soprattutto nell’era delle serie orizzontali, che senza conflitti non possono sopravvivere. Eppure, vedere Star Trek: The Next Generation dimostra come, nel complesso, il franchise abbia perso parte della sua identità in questo inevitabile passaggio alla serialità moderna. Non si arriva agli estremi dei film di J.J. Abrams (che non rivedrete mai più con gli stessi occhi, sappiatelo), ma è comunque spiazzante. Persino Picard, con la sua sinfonia di personaggi traumatizzati, cinici, che fumano, bevono, dicono le parolacce e nascondono sconvolgenti segreti, è piuttosto lontana da quella visione (anche se l’idea è che ci ritornerà, quando il buon nome della Federazione sarà ripulito).
Ho iniziato, come dicevo, uno strano esperimento. Vedere quotidianamente The Next Generation e una volta alla settimana Picard è come vedere una serie che, ogni tot, infila così a caso un episodio in cui tutti sono invecchiati di trent’anni. Ma è anche un modo per rendersi conto di come la televisione sia cambiata radicalmente in questo lasso di tempo. E di come questo non significhi che quella di una volta fosse peggiore. Era semplicemente diversa. E la diversità, come ci insegna Star Trek, è una cosa bellissima.