Nel secondo dopoguerra, Cinecittà è un campo di sfollati. Non più il cuore del cinema come strumento fascista, bensì un ricovero di civili che hanno perso la casa in seguito ai bombardamenti. La Storia, con il suo incedere brutale, impone all’arte nuovi spazi: i registi che vogliono fare cinema nell’immediato dopoguerra devono spostarsi in altri luoghi, esplorare nuovi contesti produttivi. La città stessa diviene quindi un teatro di posa, gli uomini e le donne di strada sono promossi ad attori, la luce naturale sostituisce quella dei riflettori. Il neorealismo nasce anche per questo motivo: come reazione a una specifica contingenza storico-sociale. Non un movimento, certo, e nemmeno una corrente, poiché i vari De Sica, Visconti, Germi, De Santis, Rossellini ecc. non aderiscono a un manifesto programmatico, né dichiarano i loro intenti con sguardo omogeneo; ognuno di loro ha una personalità riconoscibile, e interpreta questo “cinema di fatti” – come lo definirà André Bazin – a modo proprio. Eppure, esiste una matrice comune fatta di soluzioni ricorrenti: ambientazioni disagiate, spirito solidale e antifascista, scenari quotidiani, persone e problemi “normali”, rinuncia dell’italiano standard in favore del gergo popolare, rifiuto totale di ogni narrazione epica ed eroica, nonché la sopracitata predilezione per gli ambienti reali e non ricostruiti. Una chiara scelta estetica e politica, non solo forzata dall’indisponibilità dei teatri.
Le istanze del reale, insomma, modellano il cinema. Il neorealismo ci lascia la spietata testimonianza di un’Europa in pezzi, tra le cui macerie si aggirano piccoli orfani sgomenti e uomini disperati in cerca di occupazione: la macchina da presa può filtrare la realtà, sbrogliarla e ricucirla, ma quando subisce l’influsso dello Zeitgeist non può mentire. In quanto arte popolare per eccellenza, il cinema è lo strumento più immediato per comunicare un sentimento nazionale, come il profondo umanesimo dei neorealisti di fronte alla devastazione bellica. La Storia irrompe nelle storie, e la Settima Arte si fa portavoce di un popolo intero. Succede numerose volte negli ultimi decenni: basti pensare alla Hollywood inquieta degli anni Sessanta/Settanta, a quella reaganiana degli anni Ottanta e a quella smarrita dei primi anni Duemila, ferita e incredula dopo l’attacco alle Torri Gemelle. In quel caso, per la maggior parte degli americani si tratta di uno shock più psicologico che fisico, essendo un attacco geograficamente circostanziato (ben diverso il caso della Seconda Guerra Mondiale, i cui effetti si ripercossero su tutto il territorio italiano e gran parte di quello europeo). Di conseguenza – e anche per formazione culturale – i registi statunitensi non sentono necessariamente il bisogno di tornare al “verismo” per elaborare il trauma, ma lo filtrano attraverso il fantastico (La guerra dei mondi di Spielberg), il realismo magico (l’episodio di Sean Penn per 11 settembre 2001), il dramma patetico (World Trade Center di Oliver Stone) o quello individuale (La 25ma ora di Spike Lee, vero capolavoro del post-11 settembre). Cinema come terapia collettiva, per riflettere sul presente e guardarsi dentro.
Ebbene, ora che stiamo vivendo un altro passaggio cruciale nella Storia contemporanea, il cinema potrebbe rispondere alle esigenze del pubblico con i suoi mezzi di rappresentazione e rielaborazione. Sembra un ragionamento frivolo in un momento del genere, ma è inevitabile pensare a come risponderanno i cineasti di fronte alla situazione in cui ci troviamo. Non c’è dubbio, ad esempio, che Hollywood cercherà di sistematizzare la vicenda in qualche narrazione di ampio respiro, trasfigurando il suo tipico feticismo per le crisi globali – generalmente confinato alla fantascienza e alla fantapolitica – in un racconto con basi storiche. Non a caso, quando si parla di Coronavirus, molti ricordano film come Virus letale o Contagion, che hanno anticipato o cavalcato situazioni reali.
Gli Stati Uniti però non vivono ancora lo status di isolamento che vige in Italia, quindi non sappiamo se l’emergenza influirà sulla loro popolazione (e i loro artisti) come sta già facendo da noi. A tal proposito, non è difficile immaginare moltissimi cineasti noti e meno noti che fremono per afferrare la macchina da presa – o anche solo il proprio cellulare – e filmare le condizioni surreali delle città italiane. Esistono già alcuni reportage fotografici sull’argomento, ma il senso di realtà della cinepresa, l’illusione di “vita catturata nel suo farsi” garantita dal girato, non è paragonabile alla pur suggestiva immobilità di una foto. Anche per questo, il cinema potrebbe giocare un ruolo determinante nelle riflessioni prossime venture, favorendo la sopracitata elaborazione del trauma presso gli spettatori.
È bello immaginare che alcune sperimentazioni siano già in atto, nell’intimità delle proprie mura. Aspiranti registi o consumati filmmaker che creano piccole opere (letteralmente) da camera, lasciando montare l’ansia e la frustrazione per la quarantena in lunghi silenzi esistenziali. Oppure, cineasti avventurosi che rischiano la denuncia nelle strade semi-deserte, cercando scorci poetici nelle file fuori dai supermercati, nei tram vuoti o nei suoni inaspettati che solitamente vengono soverchiati dal traffico. È molto probabile che l’attenzione si focalizzerà sui contesti medio-borghesi, non sugli ambienti popolari del neorealismo: a far rumore sui social non sono certo questi ultimi, e inoltre il cinema italiano contemporaneo – quello più mainstream – tende nettamente verso il ceto medio. In tal senso, sarà più interessante vedere registi indipendenti come Pietro Marcello, Alessandro Comodin e il duo D’Anolfi-Parenti alle prese con questo tema, ammesso che decidano di affrontarlo.
Le potenzialità creative sono numerose quanto i punti di vista che si possono adottare. Il vecchio cliché (in gran parte ancora attuale) delle “due camere e tinello” potrebbe tornare con prepotenza per mostrarci il progressivo disfacimento di una famiglia nei giorni di quarantena, o magari il suo riavvicinamento fisico ed emotivo. Una prospettiva più ampia e corale, invece, potrebbe raccontare gli sforzi del personale sanitario per curare i malati e contenere l’epidemia, magari in forma di miniserie televisiva. Viene da chiedersi se qualche cineasta di genere voglia imbarcarsi in una rilettura metaforica dell’emergenza, magari poco comune nel cinema italiano, ma certamente gradita. A livello generale, il cinema potrebbe mettere in scena la paura e il disorientamento di questi giorni, lo straniamento davanti a una situazione inusuale (al punto che molti usano termini cinematografici per descriverla, chiamando in causa Io sono leggenda o il sopracitato Contagion) ma anche lo scellerato menefreghismo di chi la sottovaluta.
Una cosa è probabile: la costante di questo cinema potrebbe essere il dialogo tra caos e silenzio. Il caos delle informazioni sui social e sulle reti televisive, la confusione generata dai decreti e dalle interpretazioni molteplici di una singola frase, il turbamento che si prova al semplice pensiero di non poter uscire di casa senza un’autocertificazione. Ma, al contempo, anche il silenzio delle strade desolate, dei parchi svuotati del solito viavai, di un appartamento dove rimbombano i passi di un unico inquilino, di una conversazione telematica che sostituisce gli incontri reali. E poi, alla fine – perché arriverà, prima o poi, una fine – la gioia degli abbracci tra persone care, il brusio delle piazze che si ripopolano, gli schiamazzi dei bambini nei cortili.
Qualche cineasta, possiamo starne certi, sta già accarezzando l’impugnatura della sua macchina da presa.