Cinema Attualità

Quelle domeniche formative al cinema di quartiere

Pubblicato il 09 marzo 2020 di Lorenzo Pedrazzi

La programmazione non era immediatamente visibile quando aprivi la pagina degli spettacoli: dovevi scorrere il dito sull’elenco dei cinema del centro e arrivare fino in fondo, dove trovavi la colonnina dedicata alle sale di zona. I cinema di quartiere se ne stavano lì, con i nomi delle parrocchie che li ospitavano, molto meno scintillanti dei vari Astra, Apollo, Excelsior o Maestoso. Esistono ancora, ovviamente. Sono sopravvissuti e ancora attivi, ma forse non hanno la rilevanza sociale che ricoprivano fino a una ventina di anni fa, soprattutto tra le generazioni più giovani.

Sono cresciuto nel quartiere San Siro di Milano, dove le case popolari si spartivano il tessuto urbano con i palazzi signorili, e ogni domenica il Rosetum attirava gli abitanti di entrambi. In quel livellatore sociale che era il cinema di zona, io rappresentavo una delle parti meno agiate del rione: una strada silenziosa e lunare dove le comunità di gatti randagi animavano le corti, e gli schiamazzi dei bambini si riverberavano nei muri scrostati degli edifici. Andavo al Rosetum con mia madre – di solito al secondo spettacolo, che cominciava intorno alle 17 – e se non avevamo un giornale sottomano dovevamo chiamare il cinema per chiedere quale film avrebbero proiettato. Non è che ci andasse bene tutto, ma quasi. Naturalmente non potevamo trovare l’ultimo Kieślowski sullo schermo del Rosetum, ma quel cinema popolare – soprattutto americano – che colonizzava il nostro immaginario collettivo fin dai manifesti sparsi per la città: film come Space Jam e Baby Birba, Senti chi parla adesso (sì, quello con i cani) e La famiglia Addams 2, Beverly Hills Cop III e Alla ricerca della valle incantata, Apollo 13 e Tom & Jerry: Il film, Ace Ventura e il delizioso Casper, capolavoro del cinema per ragazzi dell’epoca. Per non parlare de Le nuove comiche con Villaggio e Pozzetto, nientemeno.

Il biglietto era una strisciolina di carta colorata con il bollino SIAE, mentre il sostentamento zuccherino era garantito dalle buste di caramelle gommose che si potevano comprare alla cassa. I film arrivavano al Rosetum con qualche settimana di ritardo rispetto ai cinema di prima visione, ma l’ingresso costava molto meno, e inoltre era proprio dietro casa. Una comodità e un risparmio che ingolosivano persino i miei compagni di scuola più agiati, figuriamoci noi delle case popolari.

Il bello del Rosetum era proprio quello: non aveva una dominante sociale. Come l’oratorio e la scuola elementare della zona, lo frequentavano proprio tutti, indipendentemente dalla provenienza. E allora ti rendevi conto di quanto un film potesse essere ancora più avvincente o divertente nella sala cinematografica, perché rivederlo qualche mese dopo in videocassetta – spesso affittata in una videoteca dall’aria vagamente cinéphile – non aveva lo stesso sapore. In questo momento difficile, con i cinema chiusi e la socialità giustamente sconsigliata, la sala cinematografica è un luogo di aggregazione che inevitabilmente ci manca. Le risate in sala sono più fragorose, i brividi più intensi. È l’effetto della condivisione: insieme, influenzati dalle reazioni altrui come un unico organismo, viviamo l’esperienza della Settima Arte al massimo del suo potenziale.

Sperimentarlo da bambini è utile per abituarsi a una fruizione che non sia esclusivamente solipsistica, bensì comunitaria e coinvolgente, per sentirsi parte di un “tutto”. È anche così che si coltiva un proprio gusto personale: con l’abitudine a fruire molto. Poco importa che fossero produzioni commerciali, talvolta di basso livello; anche i film più goffi e imbarazzanti contribuiscono a formare un immaginario, dando corpo a quel substrato mnemonico su cui edificheremo la nostra personalità, il nostro carattere, le nostre aspirazioni. Crescendo, ci rendiamo conto di quanto sia fondamentale avere i nostri cult personali e familiari, quei film che abbiamo scoperto in un cinema di zona e poi abbiamo rivisto innumerevoli volte su VHS, o nei passaggi televisivi. Sono risorse che, quando non si cede alle trappole della nostalgia, ci aiutano a ricordare da dove veniamo.

In questi giorni non abbiamo cinema di zona dove rifugiarci, ma quei film sono ancora lì, possiamo rivederli e sfruttare le possibilità offerte dalla rete per vivere una forma diversa di condivisione. Non è come correre in sala per prendere i posti migliori, ma è meglio che rimuginare in solitudine su questa quarantena gravosa e necessaria. Quindi, ritroviamo i nostri cult del passato, scoviamone di nuovi, parliamone con gli amici sui social, riscopriamoci vicini anche nella distanza. Dimostriamo di saper essere responsabili, ma senza chiuderci nello sconforto. In quanto spettatori, siamo un unico organismo attraversato dagli impulsi elettrici delle nostre emozioni, con un immaginario comune cui attingere. Anche – e forse soprattutto – quando siamo costretti a stare lontani.