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Con la morte di Kirk Douglas, Hollywood non perde soltanto una delle sue più grandi leggende, ma anche una voce di straordinaria indipendenza, un divo capace di impavide posizioni politiche e artistiche, geloso della sua autonomia intellettuale e professionale.
Nato Issur Danielovitch il 9 dicembre 1916, figlio di immigrati ebrei bielorussi, il futuro attore si laurea in Lettere presso la St. Lawrence University e si diploma all’Accademia americana di arti drammatiche di New York. Presta servizio per la Marina statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale, poi viene scritturato a Broadway dal produttore Guthrie McClintic, che gli suggerisce di cambiare il suo nome d’arte – Isadore Demsky – in qualcosa di più accattivante. Lui sceglie Kirk, dal nome di un personaggio dei fumetti che ama molto, e Douglas, cognome della sua insegnante di dizione all’accademia.
Con questo appellativo nuovo di zecca, Kirk fa il suo debutto sul grande schermo nel ruolo di un giovane procuratore distrettuale in Lo strano amore di Marta Ivers (1946), film di Lewis Milestone dove condivide la scena con Barbara Stanwyck e Van Heflin. Fin dall’inizio, insomma, il suo nome è legato a quello di altre grandi star e di importanti registi: l’anno successivo affianca Robert Mitchum e Jane Greer ne Le catene della colpa (1947) di Jacques Tourneur, poi si fa notare da pubblico e critica con Il grande campione (1949) di Mark Robson, dal racconto di Ring Lardner. È qui che si manifesta per la prima volta la sua indipendenza creativa, come racconta lui stesso in un’intervista:
Sono sempre stato un cane sciolto. Quand’ero nuovo nel mondo del cinema, sfidai il mio agente per fare Il grande campione invece di apparire in un importante film della MGM che avevano in serbo per me [Il grande peccatore di Siodmak, che alla fine fu interpretato da Gregory Peck]. Nessuno conosceva le persone che avrebbero lavorato a Il grande campione, ma mi piaceva la storia di Ring Lardner, e quello era il film che volevo fare. Tutti pensavano che fossi pazzo, ovviamente, ma credo di aver preso la decisione giusta.
La sua definitiva consacrazione arriva con L’asso nella manica (1951) di Billy Wilder, dove Kirk conferma la sua predilezione per le figure ciniche, dure e prive di scrupoli, come il giornalista Charles “Chuck” Tatum del film o il produttore cinematografico Jonathan Shields de Il bruto e la bella (Vincente Minnelli, 1952). In questi anni lavora anche con William Wyler (Pietà per i giusti, 1951) e Michael Curtiz (Chimere, 1950).
Kirk Douglas fa un’importante trasferta italiana nel 1954, quando gira l’Ulisse di Mario Camerini al fianco di Silvana Mangano e Anthony Quinn. In seguito fonda la sua casa di produzione, chiamata Bryna Productions in onore della madre. Avere una propria “etichetta” gli consente di esprimere al meglio la sua indipendenza, nonché di avere i suoi più grandi ruoli da protagonista.
Nel 1956 interpreta Vincent van Gogh in Brama di vivere, diretto ancora da Vincente Minnelli, mentre il 1957 è l’anno del leggendario Orizzonti di gloria, capolavoro antimilitarista del giovane Stanley Kubrick, il cui talento Douglas riesce a cogliere fin da subito. Non a caso, dopo aver licenziato Anthony Mann dal set di Spartacus (1960), l’attore chiama proprio Kubrick per sostituirlo alla regia del kolossal. Nell’era successiva alla Seconda Guerra Mondiale, Douglas è il primo attore di Hollywood a prendere il controllo della sua carriera. Emblematiche le sue parole in un’intervista del 1982:
Se mi piace un film, lo faccio. Non mi fermo a pensare se avrà successo o no. Ho amato Solo sotto le stelle e Orizzonti di gloria, ma nessuno di essi ha guadagnato molti soldi. Non importa, ne sono orgoglioso.
Parlando di autonomia intellettuale, in questi anni Kirk Douglas fa una scelta coraggiosa: affida il copione di Spartacus a Dalton Trumbo, nonostante lo sceneggiatore fosse finito sulla “lista nera” di Hollywood perché sospettato di comunismo. Un gesto esemplare, che dà la scossa a tutta l’industria.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Douglas si dedica molto al cinema di genere. Oltre ad alcuni western di Howard Hawks, King Vidor, e John Sturges (leggendario il suo Doc Holliday in Sfida all’O.K. Corral), l’attore lavora con Richard Fleischer in 20.000 leghe sotto i mari (1954) e I vichinghi (1958), poi interpreta Noi due sconosciuti (1960) di Richard Quine; L’occhio caldo del cielo (1961) di Robert Aldrich; Due settimane in un’altra città (1962) di Vincente Minnelli; il già citato Solo sotto le stelle (1962) di David Miller; Sette giorni a maggio (1964) di John Frankenheimer; La fratellanza (1968) di Martin Ritt; e Il compromesso (1969) di Elia Kazan.
Più saltuarie le sue apparizioni negli anni Settanta, ma Douglas lascia il segno con Uomini e cobra (1970) di Joseph L. Mankiewicz; Un uomo da rispettare (1972) di Michele Lupo; il thriller fantascientifico Fury (1978) di Brian De Palma; lo spaziale Saturno 3 (1980) di Stanley Donen; L’uomo del fiume nevoso (1982) di George Miller; e Due tipi incorreggibili (1986) di Jeff Kanew.
Riceve tre candidature all’Oscar – per Il grande campione, Il bruto e la bella e Brama di vivere – ma lo ottiene la statuetta soltanto nel 1996, alla carriera. Poco importa: un attore così iconico non ha certo bisogno di premi per essere ricordato. Anche perché la sua influenza si avverte persino in sede politica, soprattutto quando si impegna in una campagna per indurre gli Stati Uniti a chiedere scusa per la schiavitù e le ingiustizie che gli afroamericani hanno continuato a subire dopo la sua formale abolizione. La battaglia si conclude il 30 luglio 2008, quando la Camera dei Rappresentanti presenta un testo ufficiale con il quale si porgono le scuse per la schiavitù e le conseguenti discriminazioni razziali “istituzionalizzate”.
La sua penultima apparizione sul grande schermo è in Vizio di famiglia (2003) di Fred Schepisi, dove recita con il figlio Michael e il nipote Cameron, mentre l’ultima risale al drammatico Illusion (2004) di Michael A. Goorjian. Sempre indipendente, arguto e fuori dagli schemi: Kirk Douglas ha insegnato a Hollywood che fare di testa propria è l’unico modo per rimanere fedeli a se stessi.
Fonte: The Hollywood Reporter