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È fin troppo facile parlare della seconda stagione di Altered Carbon come di un’operazione di resleeved, ma la similitudine calza: la serie di Laeta Kalogridis ha mutato custodia proprio come Takeshi Kovacs, e il suo nuovo “corpo” impone numerosi cambiamenti rispetto alla prima stagione. Così, lo show si risveglia dopo due anni ritrovandosi in un mondo nuovo, poco interessato agli eccessi dei vecchi episodi, che qui sono mitigati in favore di un prodotto più regolare. L’audacia e le ambizioni del passato, in effetti, vengono imbrigliate in una serie di più basso profilo, capace di offrire un intrattenimento valido ma privo di grandi vertici emotivi o visuali.
Sono trascorsi trent’anni dalle vicende di Bay City, e Takeshi Kovacs – ora nascosto in un corpo femminile – viene rintracciato da Trepp (Simone Missick), una cacciatrice di taglie che deve consegnarlo a un potente Met di Harlan’s World. Quest’ultimo è spaventato da una minaccia mortale, e offre a Takeshi una nuova custodia potenziata e molti soldi in cambio della sua protezione. Takeshi accetta, ma solo perché il Met gli promette informazioni sull’amata Quellcrist Falconer (Renée Elise Goldsberry), che lui credeva morta da secoli. Ovviamente, però, le cose non vanno come dovrebbero: Takeshi si risveglia nella sua nuova custodia (Anthony Mackie), ma qualcuno ha preso d’assalto il laboratorio, ucciso il Met e tutti i suoi uomini. La misteriosa assassina sembra essere proprio Quellcrist, che ha ferito Tak e poi si è dileguata.
Accompagnato dall’IA Poe (Chris Conner), l’ultimo Spedi trova rifugio nello stesso hotel che vide la sua morte, circa duecento anni prima. Harlan’s World è ora governato da Danica Harlan (Lela Loren), figlia del colonizzatore di questo pianeta: lei e il suo governo sono impegnati in una guerra contro i seguaci di Quell, sostenitori del diritto alla mortalità, ma la donna nasconde qualcosa di oscuro. Intanto, Tak ritrova Trepp e chiede il suo aiuto per indagare sull’omicidio del Met, del quale è stato accusato lui stesso. Sul pianeta giunge anche lo spietato Colonnello Ivan Carrera (Torben Liebrecht), inviato dal Protettorato per catturare l’assassino, ma anche lui ha degli obiettivi segreti.
Seppure in modo diverso, Altered Carbon continua a interrogarsi sulle problematiche relative al transumanesimo, declinate in una serie che rinuncia ai toni del noir per abbracciare l’avventura. La seconda stagione, di fatto, depotenzia il ruolo del contesto ambientale per concentrarsi sull’interiorità dei personaggi, con notevoli conseguenze anche sul piano produttivo: senza più la metropoli alienante che schiaccia i protagonisti, la serie risolve gran parte della sua narrazione in interni, mentre gli esterni cittadini hanno il respiro decisamente corto. I nuovi episodi conservano quindi una matrice terrena e restano al livello del suolo, poiché laggiù si consumano le vicende intime dei nostri eroi. L’uso del plurale non è fortuito: la seconda stagione ha infatti un’impostazione più corale rispetto alla prima, poiché il versante privato di molti personaggi “secondari” acquisisce una centralità che in passato non aveva (a parte la Kristin Ortega di Martha Higareda, che torna solo per un cameo virtuale).
È soprattutto Poe ad assumere una funzione da co-protagonista, per la gioia dei suoi moltissimi – e meritatissimi – fan. Il bravissimo Chris Conner coagula in sé le più interessanti sfumature emotive della serie, dando corpo all’idea di un’intelligenza artificiale “più che umana”, capace di apprendere dall’esperienza per provare emozioni. Proprio il suo disperato attaccamento alla memoria (Poe ha bisogno di un riavvio per risolvere un glitch, ma perderebbe il ricordo della carissima Lizzie) rievoca il ruolo della memoria stessa nel definire l’identità, concetto assai mutevole in un futuro dove la morte è stata sconfitta. Se la natura artificiale di Poe gli consente di mantenere il suo aspetto, gli umani trasferiscono invece le loro pile corticali da una custodia all’altra, e il corpo è soltanto un vascello per la mente. Emanciparsi dal corpo implica tutta una serie di conseguenze che Altered Carbon amalgama con cura nel suo racconto d’azione, scegliendo fortunatamente di mostrarle più che descriverle. Certo, stavolta il tema del corpo e le discriminazioni socio-economiche passano in secondo piano: nella sua “riduzione” intimista, la seconda stagione preferisce concentrarsi sulle colpe del passato che si riverberano nel presente, nonché sul peso della memoria in una mente immortale.
Graziati dalla vita eterna, i personaggi della serie sono anche perseguitati dagli spettri di un passato centenario, ricordi di errori terribili e azioni deprecabili che si accumulano nella loro pila corticale. Nemmeno l’oblio – come accade inizialmente a Quell – porta sollievo: la violenza è inevitabile, agevolata dalla transitorietà dei contenitori fisici (che infatti vengono chiamati custodie: il corpo perde la sua unicità). Lo stesso Anthony Mackie infonde in Takeshi Kovacs una maggiore umanità rispetto a Joel Kinnaman, rendendolo più instabile e umorale, vittima degli scompensi emotivi provocati dalla ricomparsa di Quell. Anche Simone Missick riesce a bilanciare durezza e fragilità, dando il meglio nelle scene con la moglie Myka (Sharon Taylor) e il figlio.
Come accennato in precedenza, la seconda stagione di Altered Carbon lima i parossismi che caratterizzavano la prima, normalizzando la serie sul piano visivo e produttivo. L’azione è meno brutale, il sesso meno esplicito, le ambientazioni meno vaste e spettacolari. Ci sono anche meno episodi, segno che Netflix ha voluto limitare le risorse dello show per non rischiare troppo; eppure, la nuova showrunner Alison Schapker è riuscita a confezionare una trama che – mentre si allontana quasi completamente dal romanzo Angeli spezzati di Richard K. Morgan – trova una sua soddisfacente compiutezza nel finale.
Insomma, mancano i picchi visuali e adrenalinici della prima stagione, e si fa anche più fatica a percepire la vastità del contesto futuristico. La seconda stagione punta tutto sui personaggi, conserva buone scene d’azione (in parte derivate dal gun-fu di John Wick) e validi effetti digitali, pur impiegandoli in minor misura. Si ha quindi l’impressione di assistere a uno show meno innovativo nella sua combinazione di generi e toni, ma forse più attento a una certa sensibilità contemporanea, soprattutto in termini di rappresentazione etnica e sessuale.
Difficile immaginare il futuro di una serie che cambia così tanto di stagione in stagione, e la cui tendenza alla metamorfosi è inscritta nel suo stesso DNA. Resta comunque uno dei pochi show a tradurre in immagini le chimere del transumanesimo, narrandone le implicazioni sulla società e sugli individui: anche solo per questo, la speranza è di vederne altre stagioni.