«L’unico vero realista è il visionario» diceva Federico Fellini, una frase citata già innumerevoli volte per festeggiare il suo centenario. Eppure i visionari hanno sempre avuto poco spazio nella tradizione italiana, soprattutto al cinema e in letteratura, dove geni immaginifici come Iginio Ugo Tarchetti, Italo Calvino, Dino Buzzati e Mario Bava sono stati una felice anomalia. Fellini ha bevuto dal medesimo calice, ma in termini d’impatto sull’immaginario collettivo – ovvero la capacità di consegnare alla Storia un singolo fotogramma, una frase, una sequenza – è stato forse il più incisivo di tutti: ha praticato l’arte popolare per eccellenza, quella che ha raggiunto il maggior numero di fruitori nel corso del Novecento, e l’ha portata allo stesso livello iconico degli altri grandi maestri internazionali.
Non è un caso che tra i suoi “miti” ci fosse Winsor McKay, leggendario illustratore di Little Nemo e Gertie il dinosauro. Disegni e vignette sono lo strumento ideale per fissare un’immagine nella mente del lettore, ma anche per filtrare la realtà attraverso uno sguardo grottesco, satirico, fantastico: proprio ciò che fa Fellini all’inizio della sua carriera, quando lavora per la rivista Marc’Aurelio. La sua peculiare formazione si traduce in un cinema che privilegia l’immagine sulla parola, rendendolo appetibile oltreconfine per la sua universalità. Non è l’unico cineasta italiano a costruire immagini iconiche – anche Pastrone, Rossellini, De Sica, Visconti e Antonioni hanno esercitato una forte influenza sul cinema globale – ma Fellini tende di più verso l’astrazione, il sogno: materiali evanescenti e molto personali, ma legati all’esperienza condivisa della fantasia. Il suo successo negli Stati Uniti è dovuto anche a questo. Se il cinema americano è abituato a (ri)creare spazi, anche l’arte felliniana immagina mondi nuovi all’interno del nostro, li costruisce e li esplora. Così, la via Veneto ricostruita in studio per La dolce vita è un luogo più sognato che reale, idealizzato nel suo decadente fascino glamour; mentre la Rimini di Amarcord è una regione della memoria, sfocata e inattendibile come solo i ricordi possono essere.
In bilico tra questo mondo e un altro di sua invenzione, Federico Fellini parte spesso da un dato intimista e lo trasfigura in qualcosa di più ampio, dove le sue passioni e ossessioni possono ambire alla suddetta universalità. Ma al centro troviamo sempre il suo sguardo, capace di determinare la percezione collettiva di una realtà specifica: basti pensare che, tutt’ora, molti non riescono a immaginare il circo e il varietà come qualcosa di diverso dai commossi ritratti felliniani, soprattutto in Luci del varietà, La strada e I clowns, dove il cineasta riminese rievoca gli spettacoli che amava da bambino. Anche quella, in fondo, è una dimensione da sogno: Fellini ha inseguito visioni oniriche per tutta la sua carriera, talvolta immergendosi in un clima sospeso e lunare che mette in scena un “altrove” da cui fuggire (gli incubi di 8½) o in cui rifugiarsi (la danza nella nebbia di Amarcord).
Eppure, nonostante la caratura dei suoi film, l’eredità del cineasta è molto più sfuggente di quanto si pensi. Da un lato perché, come altri grandi del cinema, la sua arte non è replicabile: si può essere felliniani, ma nessun altro può essere Fellini; e chi ci prova è destinato a fallire, suonando vacuo e pretenzioso. Inoltre, il suo retaggio agisce sugli spettatori per via sottocutanea, non è palese o facilmente individuabile. È il classico autore di cui si parla anche senza conoscerlo, poiché i suoi film appartengono a un patrimonio condiviso: ne veniamo toccati senza nemmeno accorgercene, ne scopriamo le infinite citazioni (anche musicali: il tema di Nino Rota per Amarcord) nelle pubblicità o in altri contesti, ma spesso non riusciamo a definirne l’origine. Siamo come Marcello Mastroianni nel meraviglioso, dolente finale de La dolce vita: ci chiamano, ma non riusciamo a sentire bene quello che dicono.
Per lui è troppo tardi, la voce dell’innocenza lo raggiunge quando è già perduto, già corrotto. È nell’infanzia, nei ricordi e nella nostalgia che Fellini rintraccia quella purezza in grado di renderci ancora umani. E ci chiede di ascoltarne il canto, prima che il fragore delle onde lo seppellisca per sempre.