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1917, la guerra è un ciclo eterno nel film di Sam Mendes | Recensione

Pubblicato il 16 gennaio 2020 di Lorenzo Pedrazzi

1917 termina con una dedica: quella di Sam Mendes a suo nonno Alfred Hubert Mendes, che ha combattuto sul fronte francese durante la Prima Guerra Mondiale, nel 1st Rifle Brigade, e di quell’esperienza “ha raccontato le storie”. Se ne ricava una grande presa di coscienza da parte del cineasta inglese, che dimostra di conoscere bene le sue responsabilità di narratore: le storie si trasmettono di generazione in generazione, e il cinema può trasfigurare un racconto intimo come quello di Alfred in un prodotto universale, fruibile da un pubblico ampio. Così, la memoria verrà conservata e tramandata nei decenni, anche dopo la scomparsa delle fonti originali.

Se è vero che la Storia, al di là dei grandi eventi e della retorica che li circonda, si consuma sulla pelle della gente comune, allora Mendes adotta la prospettiva più idonea per narrare un conflitto incomprensibile come la Grande Guerra. Schofield (George MacKay) e Blake (Dean-Charles Chapman) sono due soldati dell’esercito britannico che accettano un incarico senza nemmeno sapere di cosa si tratti, e scoprono di dover compiere una missione cruciale: consegnare un dispaccio al Secondo Battaglione del Reggimento Devonshire, oltre la Linea Hindenburg, per avvertire che i tedeschi hanno arretrato il fronte solo per tendere una trappola agli inglesi. Le vite di 1.800 soldati dipendono dall’impresa di Schofield e Blake, compreso il fratello di quest’ultimo, tenente del Reggimento Devonshire.

Comincia così il lungo cammino dei due protagonisti, dalla trincea amica a quella nemica, passando per la terra di nessuno, e poi lungo strade devastate, villaggi in rovina e boschi dove risuona un canto soave. Mendes valorizza la sacralità dei momenti in cui l’Uomo impatta con la Storia, ma anche la stupefacente meraviglia della Natura, osservatrice neutrale degli orrori umani. 1917 è una successione di long take che simula un unico piano sequenza (due, in realtà), ma la sfida tecnica – vinta a piene mani dal regista insieme a Roger Deakins, formidabile direttore della fotografia – non è un mero esercizio di stile.

Non sono tanto i virtuosismi della macchina da presa a interessare Mendes, bensì la continuità dello sguardo. Schofield e Blake non hanno altra scelta se non perseverare, continuare a camminare oltre lo stremo delle forze, e la macchina da presa fa esattamente lo stesso: non si ferma mai. Li pedina a ogni passo, esplora con loro il degrado ambientale causato dalla guerra, ne osserva pietosamente le ferite e prosegue sulla sua strada. Ben presto, ci si rende conto che il piano sequenza corrisponde allo stato di coscienza di uno dei protagonisti: nella vita non esiste alcuno stacco di montaggio – se non quando perdiamo i sensi – e 1917 segue lo stesso principio.

Il movimento costante della mdp favorisce inoltre lo svelamento graduale della realtà davanti agli occhi dei soldati, e Mendes gioca su questo aspetto con risultati memorabili. Certo, talvolta è fin troppo ansioso di dimostrarci la sua bravura, ottenendo effetti che ricordano le animazioni precalcolate dei videogiochi, ma sono circostanze passeggere: il resto avviene con grande naturalezza, e alcune inquadrature hanno una bellezza monumentale, soprattutto quando si aprono progressivamente per mostrarci una visione d’insieme. Una bellezza che non è mai stucchevole, anche perché la sceneggiatura di Mendes e Krysty Wilson-Cairns non eccede mai nel melodramma, e cerca l’essenzialità dei sentimenti.

Al contempo, il piano sequenza favorisce la struttura circolare del racconto, dove l’ultima inquadratura replica la prima. Mendes rievoca così l’eterno ritorno della guerra, un ciclo infinito che pare connaturato all’esistenza stessa dell’Uomo, sempre pronto a ripartire da capo: ci sarà sempre un’altra guerra, un’altra missione, un altro sacrificio da compiere.

Con Dunkirk e Mosul, il miglior film bellico degli ultimi anni.