Siamo nel 1990, e questa è la storia del film di Super Mario Bros. e di come anche i migliori sogni possono trasformarsi in incubi, e una gallina dalle uova d’oro tramutarsi in un avvoltoio che volteggia sulla carcassa di una pellicola partita con le migliori intenzioni e finita malissimo. Roland Joffé è in un albergo di Kyoto da dieci giorni: dieci giorni trascorsi ad aspettare una telefonata, che però non arriva. Non che questo basti a dissuadere Joffé, regista inglese i cui primi due film (Urla del silenzio e Mission) hanno fatto il pieno di premi e nomination, e che per proprio per girare Mission con Robert De Niro e Jeremy Irons aveva affrontato tempo prima mesi di giungla sudamericana rallegrati da dissenteria gratis per tutti. Joffé ha messo in piedi una piccola società di produzione, la Lightmotive, e vuole accaparrarsi i diritti cinematografici di Super Mario Bros., ambitissimi da mezza Hollywood. Perché è il 1990, dicevamo, e Mario Mario è una star planetaria: Super Mario Bros. 3 è da poco uscito anche negli USA e sta sfondando a colpi di Mamma Mia! un record dopo l’altro. Tutti vogliono portare l’idraulico italiano sul grande schermo, ma nessuno è riuscito finora a convincere Nintendo. È per questo che Joffé sta aspettando quella telefonata.
Facciamo un passo indietro. Le trattative sono partite negli USA, con un incontro con Minoru Arakawa, presidente di Nintendo of America e uomo, narra la leggenda, che ha scelto il nome Mario per il personaggio, prendendolo da quello del padrone del magazzino che la divisione yankee di Nintendo utilizzava, Mario Segale. Arakawa è stato messo lì a sbrogliare casini (come la faccenda di Donkey Kong) e conquistare il mercato stelle e strisce dal potentissimo suocero, Hiroshi Yamauchi, boss supremo della Nintendo, pronipote del suo fondatore e artefice del suo grande successo. Yamauchi, l’uomo che ha trasformato una società di carte da gioco – e che tra una cosa e l’altra aveva creato una catena di love hotel per incentivare la copula delle coppie giapponesi – nel gigante mondiale del videogioco. Ed è proprio per convincere Yamauchi che Joffé sta aspettando lì a Kyoto da giorni, in una camera d’albergo, quella telefonata.
Alla fine, dopo tutte quelle notti spese a dormire su un tatami, la chiamata arriva, Joffé illustra il suo progetto a Yamauchi e si porta via i diritti di Mario per farne un film. Come ha fatto a convincere Nintendo? Con 2 milioni di dollari, lasciando ai giapponesi i diritti sul merchandising e spiegando che il film sarà su personaggi veri, “i veri Mario Mario e Luigi Mario, non dei semplici pupazzi in computer graphic”. Ha promesso che il tutto sarà curato e non buttato lì, e che le trama sarà avvincente. Solo che una trama ancora non esiste, e Joffé ha improvvisato, con alcuni storyboard che si è portato dietro. Tornato negli USA, si chiede cosa fare. Magari coinvolgere un premio Oscar per la storia? Si va sul sicuro, no? Oh, sì, se vuoi fare un altro Rain Man con gli idraulici.
È quello, essenzialmente, a cui mira lo script di Barry Morrow. Joffé, che in Giappone ha parlato con il creatore di Mario, Shigeru Miyamoto, non sa come tradurre il particolarissimo mondo del videogioco in un film live action. Non riesce neanche a giocare decentemente quella roba, che suo figlio invece adora. Si rivolge così allo sceneggiatore che due anni prima ha vinto l’Oscar con Rain Man – L’uomo della pioggia. Morrow immagina un film in cui Mario e Luigi non sono ancora super. Due idraulici normali, il fratello maggiore Mario e il più ingenuo fratello minore Luigi, alle prese con un viaggio, fisico ed esistenziale, che esplora il loro rapporto e perché, in fondo, anche se così diversi, si vogliono bene. “Drain Man”. Ai microfoni del Los Angeles Times, nel ’92, il co-produttore Fred Caruso spiega che quella storia era troppo seria, un film drammatico al posto della commedia avventurosa che volevano. “Puntavamo allo stesso pubblico di E.T. e Ghostbusters, così come di Terminator II e Batman“. Hai detto niente.
Per rendere la storia più divertente, viene tirato a bordo Ed-Solomon, che ha scritto con Chris Matheson una commedia di enorme successo e amatissima negli USA, Bill & Ted’s Excellent Adventure. Ma il progetto Super Mario Bros. continua a cambiare velocissimamente pelle e facce, perché nulla sembra funzionare. Si cerca di ingaggiare Danny DeVito per fargli fare Mario (e dirigere il tutto), poi Arnold Schwarzenegger e Michael Keaton per il Re dei Koopa/Bowser. Viene assunto come regista Greg Beeman, che però viene licenziato dopo che il suo Mom and Dad Save the World si rivela un disastro al botteghino. Arriva il production designer Wolf Kroger, ma nella confusione generale del progetto va via pure lui, rimpiazzato da David Snyder, che aveva in curriculum Blade Runner. Joffé non sa che pesci prendere, ma a un certo punto ricorda di questa serie che guardava da ragazzo in Inghilterra…
“Abbiamo commesso diversi errori”, racconta Joffé in quel pezzo del LA Times, “tentato varie strade che non funzionavano, che portavano a un’ambientazione troppo medievale o comunque non adatta. Temevo che il progetto avesse preso una brutta piega. Ed è allora che ho iniziato a pensare a Max Headroom“. La serie fantascientifica britannica dal sapore cyberpunk, con questa testa digitale all’interno di un televisore, era stata creata e diretta da quella che era allora e sarebbe stata ancora a lungo una coppia anche nella vita. Joffé incontra quindi questi due registi, Rocky Morton e Annabel Jankel, a Roma. E i due immaginano una storia diversa, a base di dinosauri. In effetti la Dinosaur Land è uno dei pezzi forti dell’ultimo capitolo della saga, il gioco Super Mario World per Super Nintendo. Yoshi stesso è un dinosauro, non è un’idea poi così bislacca, no? Aspetta. L’idea iniziale, raccontata dallo stesso Joffé: “65 milioni di anni fa, un meteorite colpisce la Terra, nel punto in cui oggi sorge Brooklyn, e spedisce alcuni dinosauri in una dimensione parallela, in cui si evolvono in creature antropomorfe”. Era nata la Dinoyork di Super Mario Bros.
Jankel e Morton pensano a una versione distopica dell’America contemporanea in mano ai dinosauri, un futuro sinistro che funga da parodia di New York e del mondo delle industrie pesanti. Per usare le parole di Joffé, “un nuovo brutalismo”. Il colorato mondo di Mario trasformato in un incubo industriale del futuro, girato in una fabbrica di cemento abbandonata nel deserto. Intanto la storia viene riscritta un’altra volta: dal dramma si è passati alla commedia, ma ora l’ambientazione sinistra richiede un ulteriore ritocco. Parker Bennett e Terry Runte provano quindi a trasformare Super Mario Bros. in un incrocio tra “Il mago di Oz e Ghostbusters, divertente, ma anche dark e strano”. Oh, hai voglia.
Bob Hoskins non voleva saperne di interpretare Mario. Veniva da film di grande successo come Chi ha incastrato Roger Rabbit e Hook, ma temeva che un altro film per ragazzi lo intrappolasse in un loop di ruoli simili. Ma alla fine Joffé – che continuerà a modificare la storia praticamente fino all’ultimo ciak – riesce a convincerlo. Hoskins se ne pentirà amaramente. Intervistato dal Guardian, nel 2007, dirà che “Super Mario Bros. è stata la peggior cosa fatta nella mia carriera, un fot*uto incubo”. Ma questo nel 1991 ancora non lo sa, ed è contento di poter interpretare uno degli eroi del suo figlio più piccolo. Quello che dopo le riprese di Chi ha incastrato Roger Rabbit non gli rivolgeva più la parola. Perché, avrebbe capito solo in seguito Hoskins, “quale padre non porta a casa Bugs Bunny, Yosemite Sam e Daffy Duck e li presenta a suo figlio, dopo aver lavorato con loro?”.
In Super Mario Bros. si trova invece a lavorare con John Leguizamo (Luigi), Dennis Hopper (Koopa) e Samantha Mathis (Principessa Daisy). Le riprese durano da maggio a luglio del ’92, un’ottantina di giorni che per tutte le persone sul set scorrono felici e allegri come una riunione di condominio tra anziani battaglieri posseduti dal demonio e armati di AK-47. Sempre Hoskins, in quell’intervista, la parola “incubo” la usa più e più volte: “Tutta l’esperienza è stata un incubo. I due registi, marito e moglie, erano due arroganti, e la loro arroganza veniva scambiata per talento. Dopo alcune settimane è stato il loro stesso agente a dirgli di andarsene dal set. Un fot*uto incubo. Fot*uti idioti”. Per rendere sopportabili quei giorni rinchiusi in una fabbrica di cemento dismessa nel deserto, alle direttive di due registi per cui non nutrono evidentemente molta stima, Hoskins e Leguizamo iniziano ad alzare il gomito, come racconterà Leguizamo nella sua autobiografia. Durante una ripresa, a Leguizamo tremano le mani per qualche bicchierino di troppo, ma si mette lo stesso al volante del furgone dei fratelli Mario. Hoskins finisce con una mano schiacciata nello sportello e un dito rotto. Il suo umore, diremo, con quell’incidente non migliora.
Dennis Hopper, che pragmaticamente ha dichiarato ai quattro venti di esser lì per i soldi, continua intanto a litigare con i registi, perché le sue battute gli fanno schifo. Più volte gli viene detto di riscriverle come gli pare; qualsiasi cosa, basta che si va avanti. I produttori continuano a chiedere che diavolo sta succedendo, perché ci sono tutti quei tempi morti, chi sta controllando davvero il tutto. La risposta è: nessuno. Oppure: l’entropia cosmica. (M)andati via Morton e Jankel (il primo descriverà questa esperienza professionale come “umiliante”), la produzione, ormai nel panico più totale, chiede nuove riprese affidandole al direttore della fotografia. Morton viene lasciato fuori dal montaggio e chiama il sindacato perché faccia qualcosa; il tempo per completare il film scarseggia. Un allegro incidente ferroviario in galleria. Costato 48 milioni, Super Mario Bros. esce nelle sale USA il 28 maggio del ’93. Ha alle spalle uno dei brand più popolari e di maggior successo del pianeta, è interpretato da attori famosi e presenta alcune caratteristiche indubbiamente innovative. È stato il primo film a usare Autodesk Flame per gli effetti speciali in CGI: un software ancora in versione beta che avrebbe fatto, appunto, fuoco e fiamme in quel di Hollywood.
Ma gli effetti speciali rivoluzionari non bastano a salvare un film così raffazzonato dal suo destino. In seguito il fattore nostalgia avrebbe smussato molti spigoli, e tanti adulti di oggi che l’hanno visto in TV o al cinema da ragazzini lo ricordano con affetto, certo. La stampa, ai tempi, lo disintegra. Viene riconosciuto il buon livello degli effetti speciali e la bravura di Hoskins e Leguizamo, ma la storia inconsistente e i pessimi dialoghi sono bersaglio facile per le freccette delle recensioni. Il Los Angeles Times scrive che “è un film spaccato in due: riuscito da una parte [effetti, i due protagonisti]” e “wildly deficient on another” [tutto il resto]. Di quei 48 milioni spesi se ne recuperano negli USA meno della metà. Non sono noti gli incassi nel resto del pianeta, ma i conti chiudono in un rosso feroce come un Categnaccio. Leguizamo dichiarerà molti anni dopo, per il ventesimo anniversario della pellicola, che Super Mario Bros. è stato comunque il primo del suo genere, un punto di riferimento per gli altri, e si dirà felice della rivalutazione postuma che il film ha ottenuto con l’avvento di Internet. Uno status di “strano cult, comunque interessante” di cui era felice anche Joffé, pur non mettendosi lì a difendere il film.
Per Shigeru Miyamoto, il creatore dell’idraulico, il film di Super Mario Bros. non ha funzionato perché non hanno voluto allontanarsi troppo dal videogioco, facendo un film su un videogame, anziché un film divertente in sé”. Non è ben chiaro se il sensei Miyamoto il film l’abbia mai visto, o se più semplicemente sia stato in quell’intervista molto educato, come in genere succede con i giapponesi. E a proposito di questo. Joffé che una seconda telefonata da Yamauchi (scomparso poco dopo, nel 2013) non l’ha mai ricevuta, raccontava a Wired nel 2012: “Nintendo non mi hai chiamato per lamentarsi. Sono stati molto educati”. O avevano dato fuoco al suo numero, una delle due.