Si dice spesso che un giorno di pioggia a New York sia comunque meglio di un giorno di sole in qualunque altro posto, ed è sicuramente ciò che pensano Woody Allen e Gatsby Welles, il personaggio interpretato da Timothée Chalamet. Ci vuole una sensibilità particolare per apprezzare una giornata uggiosa, soprattutto se accompagnata dal caos vibrante di una metropoli, ma non è certo una novità nel cinema di Allen: gran parte della filmografia alleniana parcellizza le sue nevrosi, le sue passioni e i suoi gusti in molteplici personaggi che incarnano un riflesso dell’autore, anche quando non sono interpretati da lui stesso. Guardando Un giorno di pioggia a New York, ad esempio, è facile pensare a uno dei film più recenti, quel Midnight in Paris dove Owen Wilson prestava il volto a un “doppio” di Allen; stavolta, però, il riflesso in cui il cineasta si specchia è ancora più giovane, e rievoca il prestigioso retaggio letterario di F. Scott Fitzgerald e J.D. Salinger, così come la New York di certe loro opere.
Campioni di nostalgie per epoche mai vissute, sia Woody Allen sia Gatsby Welles tornerebbero ben volentieri all’Età del Jazz, e la cercano negli scorci più “atemporali” di Manhattan: luoghi come il Plaza Hotel, il Bemelman’s Bar al Carlyle e l’orologio di Delacorte allo zoo di Central Park – ma anche le sale del MET – sembrano trascendere il flusso del tempo, come diorami di un passato sognante cullato dalle note di Frank Sinatra ed Erroll Garner. Sono proprio questi gli scenari privilegiati di Gatsby, rampollo di una ricca famiglia newyorkese che, trasferitosi nell’Upstate New York per studiare allo Yardley College, torna a Manhattan con la sua ragazza Ashleigh (Elle Fanning), aspirante reporter che deve intervistare un famoso regista (Liev Schreiber). Le loro strade si separano mentre la città è sommersa dalla pioggia, ed entrambi fanno una serie di incontri che stravolgono i loro piani.
Un giorno di pioggia a New York, in effetti, porta alle estreme conseguenze uno dei tópoi del cinema alleniano: il piacere di errare senza meta, in balia di una sorte – la “fortuna” di cui parlava Match Point – che è frutto del caos, non certo di un disegno predefinito. In questo vagare per le arterie della metropoli, però, c’è anche la scoperta di una comunione d’intenti, un incontro di sensibilità e interessi con uno spirito affine, proprio come accade a Gatsby quando ritrova Shannon (Selena Gomez), sorella minore di una sua ex. Se Ashleigh è molto più in sintonia con il nostro presente, Shannon e Gatsby rimpiangono il romanticismo dei vecchi film, che sperano di ritrovare nella città più cinematografica – e quindi più iconica – del mondo.
Magari le schermaglie verbali non sono più brillanti come una volta, eppure Allen riesce sempre a mettere in luce l’inevitabile spinta verso l’altro da sé, quell’esigenza di rapporti umani che – per quanto irrazionali e assurdi – ci porta alla ricerca dell’ovetto fresco ogni mattina, come recita il finale di Io e Annie. L’irrequietezza di Gatsby non nasconde questo bisogno, anzi lo esalta. Sfuggire al conformismo dell’upper class è un puro esercizio di stile (e la madre, prima dell’epilogo, gli svela che la realtà è sempre più complessa di quanto pensiamo), ma il giovane universitario non è paralizzato dalla sua disillusione: al contrario, cerca nell’amore una via d’uscita dal disincanto.
C’è ancora spazio per il romanticismo a questo mondo, sembra dirci Allen nell’ultima sequenza: basta condividere l’amore per il bello, la meravigliosa euforia che solo un’opera d’arte può donare, il fuoco della passione che scioglie il freddo pragmatismo dei nostri tempi. La gioia di un bacio rovente sotto la pioggia d’autunno, a dimostrazione di come i sensi e l’intelletto possano trovare un’insperata armonia.