SerieTV Fumetti e Cinema News roberto recchioni Recensioni
Per me, è abbastanza complicato parlare di questo adattamento televisivo per una ragione che non ha nulla a che fare con la qualità della serie in quanto tale.
Mi permetto quindi una (spero) breve premessa per poi mettere da parte la questione.
Nei titoli di testa c’è il nome di Dave Gibbons, come autore, ma non quello di Alan Moore.
Ora, per chi non lo sapesse, Alan Moore è l’uomo che Watchmen lo ha immaginato e scritto nella sua forma originale (una miniserie a fumetti per la DC Comics, oggi disponibile in un solo, voluminoso, librone). Dave Gibbons lo ha disegnato. Ora, per quanto il lavoro di Gibbons sia assolutamente di rilievo per l’equilibrio complessivo dell’opera e il suo apporto fondamentale per determinare l’aspetto visivo di Watchmen per come lo conosciamo, non è così impossibile immaginare quest’opera realizzata da un disegnatore diverso da lui, anche se magari meno adatto o efficace. Invece, un Watchmen senza Alan Moore, semplicemente, non esisterebbe perché è totalmente frutto delle sue idee, delle sue intuizioni e della sua scrittura.
Quindi è strano vedere che l’unico autore il cui nome è indicato nei credits è quello di Gibbons.
Le ragione sono note: Moore non voleva che questa serie esistesse. Come non voleva che esistesse il film (e, infatti, il suo nome non appare neanche nella pellicola di Snyder) e, in linea generale, non vuole che il suo nome appaia mai più su nulla che abbia a che fare con la DC-Warner.
E per me, che prima di tutto sono un autore, è molto difficile valutare in maniera distaccata un’opera realizzata contro la volontà di chi quell’opera l’ha creata.
Di contro però, devo anche tener conto del fatto che Moore è anche l’autore della La Lega degli Straordinari Gentlemen (fumetto da cui è stato tratto un inguardabile adattamento cinematografico) in cui si è divertito a stravolgere e pervertire personaggi di finzione creati da altri (chissà cose ne penserebbe H. Rider Haggard del del trattamento ben poco rispettoso che Moore ha riservato al suo Alain Quatermain, per esempio).
Sorvolando sulle storie a decisamente sopra le righe che ha scritto per Superman, Batman, e Swamp Thing, lontanissime dallo spirito dei personaggi inteso dagli autori di questi personaggi.
Insomma, parafrasando un volgare modo di dire: “siamo tutti la DC-Warner con le proprietà intellettuali degli altri.”
Infine, non posso ignorare il fatto che, quando un’opera di fantasia travalica un certo grado di popolarità, bisogna entrare nell’ottica che diventa una proprietà del mondo e non solo di chi l’ha creata e che è così che si sono tramandati tanti capolavori della letteratura (i testi di Omero, per esempio, ma anche di Shakespeare) e le fiabe, le storie folcloristiche, i miti e leggende.
Insomma, è una materia complicata su cui è impossibile avere un’opinione netta e univoca.
Quello che è importante sapere per questo pezzo è solo che non vedere il nome di Moore nei titoli di testa di questa serie mi ha messo a disagio e disposto nel peggiore degli stati d’animo per valutarla serenamente. E che, nonostante questo, mi è piaciuta molto…
…e il merito è tutto da ascriversi a Damon Lindelof, uno sceneggiatore che ho sempre pesantemente bistrattato (anche per il finale di Lost ma, soprattutto, per disastri come Prometheus, Cowboy & Aliens, World War Z, Star Trek – Into Darkness) ma che, questa volta, mi ha convinto appieno non solo per il coraggio e lo spirito iconoclasta con cui ha affrontato il lavoro di Moore, ritenuto da molti sacro e intoccabile, ma proprio per l’assoluta bontà delle sue idee.
Ora cerchiamo di fare un breve sunto di cosa questa nuova serie televisiva mette in scena senza spoilerare nulla, ok?
Dunque, inizialmente ci avevano detto che non sarebbe stato un adattamento dell’opera originale, che si sarebbe trattato di un sequel o prequel e che questa serie si sarebbe dovuta intendere, più che altro, come una visione alternativa sul mondo creato da Moore.
Ecco, non è vero.
Hanno bluffato: è un seguito fatto e finito e prende avvio qualche anno dopo il disastro di New York in cui un calamaro gigante extradimensionale è apparso dal nulla, provocando un’onda psichica e uccidendo alcune migliaia di persone, per poi morire dopo pochi secondi anch’esso. Questo evento è stato così shockante per l’umanità intera da riuscire a fermare l’orologio dell’apocalisse che stava scandendo il momento in cui sarebbe scoppiata una terza guerra mondiale a base di bombe nucleari.
Da quel momento in poi, il mondo è cambiato e Lindelof ci racconta come.
Lo fa creando ex-novo dei personaggi originali (che però, per una ragione o per l’altra, ricordano quelli originali), riportandone in scena alcuni dei vecchi (ho visto i primi sei episodi della serie e, fino a questo punto, sono apparsi tre dei protagonisti principali e alcune figure secondarie).
La narrazione è strutturata su vari piani che riprendono il metodo che Moore ha messo in atto nel fumetto: c’è il livello della trama principale, che racconta l’indagine su di un omicidio che ci porta dentro all’universo delle maschere e ci fa scoprire in maniera indiretta com’è strutturata la società.
Poi c’è un piano meta-testuale in cui, attraverso l’utilizzo di flashback e inserti estrapolati da una una serie televisiva fittizia che ripercorre la storia dei vigilanti mascherati, ci viene raccontato il background dell’universo narrativo. E, infine, c’è un terzo filone narrativo, più surreale e caratterizzato da elementi fantastici che, in qualche maniera, ha un’eco con la storia a fumetti dei pirati che appare nel Watchmen fumettistico.
Questi elementi si alternano nella narrazione, spesso intrecciandosi tra loro o sovrapponendosi, in un un labirintico gioco di rimandi e segreti sul modello di serie come Westworld e The Leftovers.
Lindelof padroneggia bene il meccanismo (anche perché, se lo è inventato praticamente lui con Lost), e costruisce una narrazione posata ma avvincente, che ogni volta che sta per iniziare ad annoiare, piazza il giusto colpo di scena, la giusta rivelazione, per mantenere viva l’attenzione e spingere lo spettatore a continuare a seguire la serie per “sapere cosa sta succedendo davvero”.
Ma, sino a qui, è mestiere.
Quello che colpisce davvero del lavoro di Lindelof è il coraggio e, soprattutto, l’arguzia con cui lo showrunner ha affrontato il materiale originale, non stravolgendolo ma riuscendo a trovare al suo interno delle idee non pienamente sfruttate, da far esplodere e trasformare nel nucleo tematico della sua serie. Vi faccio un esempio:
Nel Watchmen fumettistico, tra le tante grandi intuizioni di Moore, ce n’è una che riguarda la passione del popolo americano per gli eroi mascherati. Moore (che è inglese e che per gli USA non ha una grande simpatia, è sempre importante ricordarlo), collega i vigilantes moderni ai “regulators” del vecchio west, cioè a quei gruppi di civili incaricati dalle istituzioni (più o meno ufficialmente) di raddrizzare qualche torto nella società di frontiera. In molti casi, le azioni dei regolatori trascesero i limiti della legalità e vennero costretti a coprire il loro volto per non essere perseguiti dalla legge propriamente detta, assumendo un ruolo controverso all’interno della società: fuorilegge per alcuni, moderni Robin Hood per altri. Uno dei regulators più famosi è Billy the Kid, ucciso poi dal suo amico e alleato, lo sceriffo Pat Garrett. Altri, meno noti di lui, finirono invece per andare a ingrossare le file di un altro movimento di regolatori dal volto incappucciato, composto da ex soldati dell’unione che, all’indomani della fine della guerra di secessione americana, si aggregò per “raddrizzare i torti subiti dai bianchi a causa dei neri”: il Ku Klux Klan. E, in sostanza, quello che Alan Moore ci ha raccontato nel suo Watchmen è che i moderni giustizieri mascherati che popolano tanti universi narrativi a noi ben noti, non sono altro che una versione ripulita e idealizzata di un branco di assassini giustizialisti e, spesso, razzisti. Per il bardo di Northampton però, quello del Ku Klux Klan è solamente uno dei tanti elementi che ha utilizzato nella sua opera di demolizione della figura del (super) eroe, e assolutamente non il principale visto che tale ruolo spetta all’analisi delle parafilie e delle devianze sessuali di un gruppo di tizi che amano indossare maschere, mantelli, cappucci e tute in latex per poi andarsi a picchiare con dei perfetti sconosciuti in luoghi bui e malfamati. Lindelof opera l’operazione contraria: mette l’elemento sessuale in secondissimo piano (pur tenendolo comunque presente) e porta al centro della scena la questione razziale, facendone il perno attorno a cui ruota tutta la vicenda. Non a caso, la storia si ambienta a Tulsa, nello stato dell’Oklahoma, e prende avvio nel 1921, quando la città fu teatro di alcuni feroci disordini razziali (ma sarebbe meglio parlare di follia collettiva) che portarono al linciaggio di oltre trecento cittadini afroamericani da parte delle comunità bianca della cittadina, aiutata nel massacro dalla polizia e della Guardia Nazionale. Una delle pagine più nere della storia americana che non era mai stato raccontato dal cinema o dalla televisione, almeno fino all’arrivo del Watchmen di Lindelof. Da quei tragici eventi, la storia si muove poi fino al nostro presente, intrecciando il tema del razzismo con quello dei vigilanti, facendo speculazioni cupissime (ma logiche, sensate e piuttosto acute) su come l’universo di Moore si possa essere evoluto dopo i fatti raccontati nella storia originale. Il tutto si intreccia poi con la storia di un bizzarro personaggio, un pazzo, un visionario, un genio, un atleta, rinchiuso in uno strano castello assieme a due ancor più strani servitori.
Dire di più servirebbe solo a rovinarvi la sorpresa.
In conclusione, questo Watchmen targato HBO non è solo un validissimo sequel ma è anche una grandiosa serie televisiva autonoma, che mi sento di consigliare davvero a tutti.
Arriva a breve su Sky, in contemporanea con gli Stati Uniti, non perdetevela.