Watchmen è l’ennesima dimostrazione che, se si escludono alcune eccezioni, le grandi saghe sono in mano ai fan. Il passaggio di consegne tra gli autori originali e il loro pubblico – spesso dovuto a semplici ragioni anagrafiche o burocratiche: non sempre il creatore di una saga ne mantiene i diritti – ottiene risultati contrastanti sul piano artistico, poiché il desiderio di rispettare le fonti convive con l’esigenza di svecchiarne i codici, adattandoli a un’epoca nuova. Damon Lindelof ci aveva provato (con scarso successo) in Prometheus, ma Watchmen rappresenta il suo riscatto definitivo, se ancora ce ne fosse stato bisogno dopo il prestigioso exploit di The Leftovers.
Intendiamoci, si tratta di un giudizio parziale: ho avuto modo di vedere in anteprima solo sei episodi della serie (che ne conta in tutto nove), ma è difficile credere che la stagione possa subire un tracollo nel finale. L’impressione è che Watchmen riesca a fare ciò che la nuova trilogia di Star Wars – giusto per citare un altro franchise ereditato dai fan – fatica moltissimo a realizzare: narrare in modo convincente una nuova storia nel medesimo universo narrativo, con nuovi personaggi e nuove ambizioni, ma senza perdere i legami con il passato.
La trama concepita da Lindelof si apprezza nel suo dipanarsi lento e progressivo, quindi non ci saranno spoiler in questa recensione (a parte qualcosa di minore e introduttivo). Vi ricordo che la serie debutterà su Sky in contemporanea con gli Stati Uniti: alle 3 della notte fra il 20 e il 21 ottobre e poi alle 21.15, su Sky Atlantic e NOW TV.
Sono trascorsi 34 anni da quando Ozymandias ha teletrasportato una gigantesca creatura a New York, uccidendo mezza città con una devastante onda psichica: credendolo un attacco alieno, le superpotenze della Terra hanno messo fine alla Guerra Fredda, iniziando a cooperare tra di loro. In questa versione alternativa del 2019, gli Stati Uniti vivono quindi una stagione di politiche progressiste sotto l’egida del Presidente Robert Redford, e la città di Tulsa, in Oklahoma, ne trae un particolare giovamento. È qui che si svolge la serie, non a New York (che sta ancora cercando di rilanciare il proprio appeal dopo la catastrofe) o in altre grandi metropoli. La ragione per cui Lindelof ha scelto proprio Tulsa è da ricercarsi nella sua Storia: nei primi anni del XX Secolo, Tulsa ospitava infatti la cosiddetta Black Wall Street, una delle comunità afroamericane più floride degli Stati Uniti, che però fu colpita da uno spaventoso massacro razzista nel 1921. Una massa di residenti bianchi attaccò i concittadini neri, via terra e persino con mezzi aerei, portando alla morte di circa 300 persone e alla distruzione di 35 isolati.
Le radici di Watchmen affondano nel terreno insanguinato di quella tragedia, perché Lindelof ha le idee chiare: se Alan Moore e Dave Gibson costruirono il loro capolavoro sull’attualità socio-politica degli anni Ottanta (epoca di conservatorismo thatcheriano e reaganiano), l’ex autore di Lost e The Leftovers guarda invece alla nostra contemporaneità, pur senza dimenticare che il presente dello show dev’essere una conseguenza del fumetto. Da qui l’esigenza di mettere in scena un’America liberal dopo la dittatura di Nixon, ma attraversata da conflitti razziali che conosciamo fin troppo bene. Non a caso, la protagonista è afroamericana: Regina King interpreta Angela Abar, detective della polizia di Tulsa che vive con il marito Cal (Yahya Abdul Mateen II) e tre figli adottati. A Tulsa, però, la polizia è sotto l’attacco di un’organizzazione suprematista bianca nota come Settima Cavalleria, e il dipartimento ha quindi adottato delle maschere per proteggere le identità degli agenti. I detective indossano addirittura dei veri e propri costumi, con tanto di nomi in codice e azioni illegali, da vigilanti. Angela, ad esempio, è Sister Night, dotata di un lungo cappotto e di un cappuccio nero.
Il paradosso è lampante: i supereroi mascherati sono fuorilegge, ma la polizia finisce per imitarne le gesta. Questa metabolizzazione istituzionale dei vigilanti è uno dei temi centrali della serie, che rilegge a modo proprio le ambiguità insite nella figura del supereroe, e i pericoli reazionari che si trascina dietro. Esistono posizioni opposte, e ovviamente alcune sono più condivisibili di altre, ma non c’è una suddivisione netta fra “buoni” e “cattivi”, poiché gli stessi “buoni” (o presunti tali) adottano metodi discutibili. Così, mentre il dipartimento indaga sulla Settima Cavalleria, strane macchinazioni si muovono nell’ombra: un misterioso lord (Jeremy Irons) fa esperimenti nella sua tenuta di campagna, e una ricchissima imprenditrice (Hong Chau) ha dei piani per i dintorni di Tulsa.
Sarebbe impossibile (oltre che sbagliato) fare un paragone con l’opera di Moore e Gibson. L’intelligenza di Lindelof sta proprio nel creare qualcosa di nuovo in un universo preesistente, senza eccedere in citazioni, easter egg o strizzatine d’occhio ai fan (che pure avranno modo di scovare diverse “chicche” o riconoscere alcuni personaggi). La matrice, comunque, è la stessa del fumetto: anche la serie arricchisce il racconto con inserti narrativi paralleli, affermandosi come “un gioco di incastri fra diversi livelli di realtà e finzione”, per citare l’introduzione di Luca Raffaelli a una delle edizioni italiane. Ovviamente, però, Lindelof utilizza i mezzi a disposizione della serialità televisiva, quindi abbiamo un “meta-show” al posto del “meta-fumetto”, mentre i riferimenti stilistici guardano al cinema: un episodio, in particolare, cita i virtuosismi stilistici di Iñárritu, mettendoli al servizio di una brillante retro-continuity.
Di fatto, Watchmen è un rompicapo che si svela gradualmente, di puntata in puntata, evitando il più possibile di scivolare nel didascalico. Tornano alla mente i labirinti narrativi di The Leftovers e Westworld (guarda caso, entrambi di HBO), dove il racconto conserva un’aura enigmatica e lacunosa: lo spettatore è quindi stimolato a fare le proprie connessioni, decifrando gli eventi e mettendoli in relazione tra loro. Anche Watchmen funziona allo stesso modo, e i valori produttivi sono altrettanto elevati, con grandi qualità tecnico-registiche e ottime interpretazioni. Regina King, in particolare, regala una performance estenuante per impegno e sfumature, mentre Jeremy Irons è una deliziosa esplosione di follia ed eleganza.
Lindelof afferma di aver concepito il suo Watchmen come una miniserie autoconclusiva, ma è difficile credergli dopo averne visto sei episodi: la trama è potenzialmente vastissima, e sarà interessante scoprire come lui e la sua squadra riusciranno a chiuderla nelle tre puntate successive. Ad attraversare gli episodi, comunque, c’è la tensione di un mistero che sembra guardarci dentro, come l’abisso di cui parlava Nietzsche. È in questo che la serie si dimostra una degna erede del fumetto, pur senza raggiungerne le vette: prende un intero immaginario (peraltro di grande attualità, visto il successo dei cinecomic) e lo problematizza senza alcun paternalismo. Gli eroi mascherati sono il mezzo, non il fine della narrazione.