SerieTV ScreenWEEK Originals The Doc(Manhattan) is in
“Mi ero invaghito di questa idea. Avevo una serie di progetti educativi interattivi in ballo, e ho pensato a come raccontare in modo appassionante la Storia ai ragazzi, utilizzando il personaggio del giovane Indiana Jones”. È ovviamente George Lucas a parlare, quando spiega sulle pagine di un libricino ufficiale del ’92 dedicato a Le avventure del giovane Indiana Jones (The Young Indiana Jones Chronicles) la genesi di questa serie TV di metà anni Novanta. Figlia tanto della curiosità del pubblico nei confronti del passato di Indy, quanto della voglia di visitare la parte dei libri di storia che Lucas predilige, l’inizio del secolo scorso, “perché era l’alba dell’era moderna in cui viviamo oggi”. Un progetto che George e le sue camicione a quadri riescono a mettere in moto, nonostante alcune difficoltà iniziali dovute… alle troppe versioni del protagonista.
Avevamo già visto un giovane Indiana Jones, sì. Nel 1989, Indiana Jones e l’ultima crociata non solo aveva spiegato quella faccenda del nome preso in prestito dal professor Henry Jones Jr. al cane che aveva da ragazzino, ma aveva mostrato lo stesso Jones in versione boy scout del 1912, interpretato da River Phoenix. Proprio quei dettagli sul passato dell’esploratore armato di frusta, come le origini della sua fobia per i serpenti, avevano preparato il terreno a The Young Indiana Jones Chronicles, ma restava il problema della diffidenza dei produttori TV. L’idea di una serie con tre incarnazioni dello stesso eroe, con l’Indy bambino, ragazzo e ultranovantenne, fa aggrottare molte sopracciglia, ma esattamente quello che Lucas vuole. Una serie TV su Indiana Jones gli permette da un lato di sperimentare con tecniche e soluzioni che il cinema, costoso com’è ogni sbaglio in quel campo, non può permettersi. Dall’altro gli consente di esaminare due momenti altrettanto importanti nella vita di Indiana Jones, la sua formazione piena di disavventure e la sua vecchiaia piena di ricordi. “Il network e lo studio non ne erano entusiasti”, scrive Lucas, “perché la televisione ha le sue regole e le sue piccole formule. E quelle formule vogliono una figura forte e identificabile come protagonista”. Ma alla fine la ABC accetta. Gli Indiana Jones, nella serie, diventeranno perfino quattro.
La serie che deve spiegare meglio chi è Indy e perché fa quello che fa, o chi erano Theodore Roosevelt, George Gershwin, Hemingway ed Edison ed Eliot Ness, per dire, e cosa avessero a che fare con il giovane Jones, entra in produzione. River Phoenix – che Lucas aveva voluto nel terzo film dopo averlo visto interpretare il figlio di Harrison Ford in Mosquito Coast, nell’86 – si è lasciato da tempo alle spalle gli anni della TV, perciò come Indiana tra i 16 e i 21 anni viene scelto Sean Patrick Flanery, che è più vecchio di Phoenix di cinque anni, è cresciuto in Texas, ha studiato recitazione per far colpo su una ragazza che gli piaceva e, da quando è arrivato a Los Angeles qualche tempo prima, ha collezionato alcune particine non esattamente di primo piano al cinema e in TV. Il piccolo Jones tra gli 8 e i 10 anni ha invece il volto di Corey Carrier, bambino con già alle spalle una mezza dozzina di ruoli per il grande schermo. Infine, l’Indiana novantatreenne, i cui ricordi incorniciano gli episodi, è il canadese George Hall, che all’epoca di anni ne ha in realtà solo 76. Avevano proposto quella parte da anziano a Clint Eastwood, si narra. Probabilmente avrà rifiutato semplicemente con uno sguardo torvo con gli occhi a fessura. E gli altri muti.
La serie viene girata in undici paesi diversi, su pellicola da 16mm e con un budget che oscilla tra gli 1,5 e gli 1,7 milioni a puntata. Tre settimane circa se ne vanno per le puntate vere e proprie, una mezza al massimo per i segmenti del vecchio Indy. Il tutto si basa su una timeline che Lucas conta di sviluppare per 70 episodi e che parte dal 1908 per arrivare a raccontare dell’Indy ventiquattrenne, limite stabilito da Lucas perché “dopo c’è l’Indy adulto, e l’Indy adulto è Harrison Ford”. Ma la corsa de Le avventure del giovane Indiana Jones si fermerà molto prima, sia in termini di puntate, sia nella storia del personaggio, attorno ai suoi 21 anni di età. Ad annodare le sgambate nei vari continenti del giovane Indiana e i suoi incontri con personaggi famosi come Picasso o Freud – come sorta di avventuroso Forrest Gump di inizio secolo – ci sono tanti riferimenti al mito cinematografico di Indy. Sì, qualche sbavatura in termini di continuity non manca, ad esempio proprio per la faccenda dell’erpetofobia, ma si strizza ripetutamente l’occhio al fan della saga con l’apparizione di attori pescati dalla trilogia, come Paul Freeman (che era stato Belloq nel primo film) o Roshan Seth (Chattar Lal nel secondo). Non mancano le guest-star di attori famosi, da Anthony Daniels di Star Wars a Christopher Lee, da Vanessa Redgrave a una sfilza di giovani attori che stanno esplodendo proprio in quegli anni o diventeranno in seguito delle star planetarie: Daniel Craig, Liz Hurley, Jeffrey Wright, Catherine Zeta-Jones e tanti, tanti altri.
La prima puntata de Le avventure del giovane Indiana Jones va in onda il 4 marzo del 1992 (in Italia arriva l’anno dopo: su RAI 1 dal 20 aprile 1993) e viene vista da oltre 26 milioni di spettatori. Non tutti particolarmente felici di quello che hanno visto, però. Quell’episodio pilota, La maledizione dello sciacallo, genera molte critiche, che sembrano rispecchiare quello che era il principale timore del network: dare alla gente un Indiana Jones che non era il loro Indiana Jones e non viveva le avventure rocambolesche del vero Indiana Jones. In questo articolo del New York Times dell’epoca, Lucas racconta che i problemi sono iniziati quando i piani alti dell’emittente hanno letto i primi copioni. “Cercavano azione, rischio e cattivi, ma questa serie è essenzialmente come Tom Sawyer, una storia sulla crescita. Non sarà eccitante come l’Indiana Jones che conosciamo, ma può essere più potente dal punto di vista emotivo”. L’emozione più immediata che la serie conosce, mandando in onda i primi sei degli episodi realizzati e, pochi mesi di stacco più tardi, un secondo lotto, è il continuo e inesorabile calo di spettatori, che in un anno scendono a poco più di quattro milioni. Fa eccezione il picco al quinto episodio della seconda serie, per il cameo del vero Indy, Harrison Ford. La serie viene cancellata e le ultime quattro puntate non vengono neanche trasmesse: niente storia d’amore tra la mamma di Indy e Giacomo Puccini nella Firenze del 1908, prevista per il 25° episodio. Peccato.
Lucas non demorde. Ha ancora un sacco di spunti per la serie, che muta pelle e diventa un ciclo di quattro film TV per The Family Channel, trasmessi tra l’ottobre del ’94 e il giugno del ’96. Chiusi anche quelli, fa montare anche gli episodi precedenti a coppie di due, per cavarne altri 18 film, con l’aggiunta di alcune scene di raccordo e l’eliminazione di tutte quelle con il vecchio Indy narratore (fatto salvo il cameo di Harrison Ford, chiaramente). Perché quei segmenti con George Hall erano probabilmente la cosa che al pubblico era piaciuta meno, specie per la tendenza dell’anziano di mettersi a raccontare la sua vita nei posti più improbabili. E togliete pure il probabilmente. Distribuiti in VHS, questi film di montaggio vengono presentati con un altro titolo, praticamente identico a quello che la serie aveva in Italia: da The Young Indiana Jones Chronicles a The Adventures of Young Indiana Jones.
Ma era rimasta comunque fuori tanta roba. Tante idee e proposte, tanti soggetti di quella timeline da 70 episodi di cui erano riusciti a sviluppare solo la prima parte. Uno di quei soggetti vede Jones alla ricerca di un misterioso teschio di cristallo. L’idea intriga a tal punto George Lucas che, dieci anni dopo, decide di trasformarla nel quarto film di Indy; ne è così entusiasta da promettere che quella nuova pellicola sarà un’avventura dello stesso livello de I predatori dell’arca perduta. E poi sappiamo com’è andata a finire. Ah ah, quella sagoma del vecchio George: non è mai esistito un quarto Indiana Jones, lo sanno tutti…