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Terminator: Destino oscuro guarda indietro, non avanti: la recensione

Pubblicato il 31 ottobre 2019 di Lorenzo Pedrazzi

Non tutti i cult sono adatti alla serialità: alcuni esauriscono in fretta il proprio potenziale, e la reiterazione dei loro codici narrativi non fa che accelerarne la dipartita. La saga di Terminator si è trascinata faticosamente per anni dopo il secondo capitolo, e quando ha tentato di rinnovarsi – con Salvation e Genisys – non è stata premiata dal pubblico, né tantomeno dalla critica. Terminator: Destino oscuro nasce quindi come reazione a quegli episodi controversi, sancendo il ritorno del franchise nelle mani di James Cameron, produttore e co-autore del soggetto. Suona paradossale che uno degli artefici sia proprio lui, perché Destino oscuro “uccide” fin dall’inizio l’eredità di Terminator 2, un po’ come Alien 3 aveva sprecato il retaggio del suo bellissimo Aliens – Scontro finale.

Si tratta quindi di un sequel che non tiene conto dei tre capitoli successivi, e si ricollega direttamente a T2, pur essendo ambientato a 28 anni di distanza dal suo epilogo. In tutto questo tempo, Sarah Connor (Linda Hamilton) ha continuato a dare la caccia ai Terminator che sono apparsi dal futuro, guidata dai messaggi di un misterioso alleato. Intanto, però, a Città del Messico si palesa un modello di cyborg mai visto, il Rev-9 (Gabriel Luna), che dà la caccia all’ignara Dani Ramos (Natalia Reyes). Dal futuro arriva però anche Grace (Mackenzie Davis), soldatessa potenziata con innesti cibernetici che ha lo scopo di proteggerla. Inizia così una rocambolesca fuga dal micidiale Terminator, dotato sia di un esoscheletro solido (come il T-800) sia di una copertura di metallo liquido (come il T-1000), e capace di separarli per sdoppiarsi. Sarah si unisce alla battaglia, vedendo in Dani un riflesso del suo passato.

La sceneggiatura di David S. Goyer, Justin Rhodes e Billy Ray riparte dalle basi per confezionare un sequel molto più elementare, persino semplicistico quando spiega le premesse della guerra tra uomini e macchine. Non c’è più Skynet, ma il concetto non cambia di una virgola: sembra davvero di assistere alla versione cyborg di Star Wars: Il risveglio della Forza, dove gli elementi cruciali del passato rimangono intatti, e acquisiscono solo un nome diverso (non più l’Impero, ma il Primo Ordine; non più Skynet, ma Legion). Persino alcune scene d’azione sono ricalcate su T2, eppure manca la greve solennità dei film originali, la monolitica presenza del cyborg che, con il suo incedere lento e imperturbabile, genera un senso di pericolo costante. L’impressione è che questo franchise, al contrario di altri, venga completamente snaturato dalle nuove tecnologie, e sia inadatto a un’epoca in cui la CGI è molto più invasiva: i combattimenti dinamici e le pose plastiche vanno bene per riprodurre l’iconografia dei fumetti nei cinecomic, ma non si accordano alle caratteristiche di una saga che aveva un passo alquanto diverso.

Così, Terminator: Destino oscuro finisce per essere un blockbuster “normale”, lontanissimo dalla portata innovativa dei primi due film. Più che un sequel proiettato verso il futuro, un aggiornamento che contamina gli schemi del passato con gli impulsi del presente. Grace, allora, incarna le utopie correnti del transumanesimo, mentre il programma Legion è lo spauracchio della singolarità tecnologica che diventa una minaccia per la razza umana. Purtroppo, però, quest’ultimo aspetto manca di complessità (nel dibattito odierno esistono molte più sfumature sulle potenziali motivazioni dello scontro), e non si sposta di un centimetro da quello che Cameron aveva concepito già nel 1984. Più in linea con la contemporaneità è invece il ruolo primario – e numericamente maggioritario – dei personaggi femminili, anche se l’emancipazione della protagonista da semplice “utero con le gambe” a paladina dell’umanità non è certo una sorpresa.

Dal canto suo, la Sarah Connor di Linda Hamilton aggiunge quel pizzico di disillusione che infonde un po’ di carisma, mentre Arnold Schwarzenegger ha sempre una notevole presenza scenica, pur stemperandola nell’ironia. Gli aspetti migliori di Terminator: Destino oscuro provengono dal passato, unico appiglio per contare ancora qualcosa.