Arrivata su Netflix lo scorso 18 Ottobre, Living With Yourself è passata quasi in sordina sulla piattaforma online, in parte oscurata dal ritorno di Breaking Bad con il film-sequel El Camino e da una lunga serie di show e lungometraggi (primo fra tutti Panama Papers) che hanno attirato gran parte del pubblico dedito al binge-watching.
Se vi siete persi Living With Yourself, vi consigliamo caldamente di recuperare la serie, composta di 8 episodi dalla durata inferiore ai 30 minuti, perché vale davvero la visione: ecco perché!
Il simpaticissimo protagonista di Ant-Man, una delle colonne del Marvel Cinematic Universe, è il protagonista di Living with Yourself, in cui interpreta un doppio ruolo: Miles Elliott, depresso e frustrato dagli eventi degli ultimi anni della sua vita, decide di sottoporsi ad un misterioso trattamento teso a renderlo la “migliore versione” possibile di sé stesso. La sua “vecchia versione” però, (quindi quella peggiore…) non viene sostituita dalla nuova: due Miles si ritrovano quindi inaspettatamente a contendersi la stessa vita e l’amore per la stessa donna (Kate, interpretata da Aisling Bea), memori dello stesso passato ed avendo vissuto le stesse esperienze… Ma con un approccio alla vita futura del tutto differente l’uno dall’altro.
Paul Rudd, assolutamente credibile nel doppio ruolo, è l’indiscusso mattatore dell’intera vicenda, costantemente al centro della scena ed in continua lotta contro sé stesso, perfettamente sorretto da un comparto tecnico che rende la doppia presenza dell’attore sullo schermo sempre del tutto verosimile. Le differenze fra i due Miles, pur sottolineate da un aspetto (da una parte trasandato e dall’altro curatissimo) differente, sono acuite dalla recitazione di Rudd, che in ogni momento riesce a far percepire di “quale versione” di Miles stiamo seguendo le avventure.
Living With Yourself fa propria fin da subito una comicità disillusa e dark: la situazione in cui vengono a trovarsi i due Miles viene presto spiegata allo spettatore tramite dinamiche umoristiche tese a smorzare l’inquietudine di ciò che viene realmente mostrato su schermo. Gli argomenti che lo show tratta potrebbero egregiamente tenere in piedi una serie drammatico-filosofica sul vero significato della vita, ma la produzione si è invece sbilanciata verso un approccio più leggero (anche se in verità, leggero solo in apparenza) che non fa altro che innalzare il livello della vicenda: le situazioni comiche che si vengono a creare sono costruite in modo da riavvicinare i protagonisti allo spettatore, che pur osservando vicende al limite della fantascienza riesce ad immedesimarsi completamente nella narrazione.
La commedia muta presto in tragedia esistenziale, pur condita dell’umorismo nero di cui abbiamo appena parlato.
In effetti tramite la figura del “doppio”, Miles rilegge il suo approccio alla vita (la stessa, identica vita) riuscendo ad analizzarla da due diversi punti di vista, ognuno con i suoi pregi ed i suoi difetti: la scrittura va ad indagare sulle ragioni dell’insoddisfazione personale e su quanto questa sia figlia dei propri comportamenti. Messo di fronte a ciò che sarebbe potuto essere e che in effetti era un tempo (o all’opposto, di fronte a ciò che potrebbe diventare) Miles si scopre essere il suo peggior nemico sia nell’uno che nell’altro caso, in entrambi gli scenari alla ricerca di una felicità difficile da raggiungere tramite scorciatoie.
A tutti gli effetti, Miles e Miles sono due diversi protagonisti, ognuno con i suoi problemi e con i propri obiettivi personali: ai due si aggiunge Kate, che in più di un’occasione esce dal ruolo di personaggio secondario mostrando anche il suo punto di vista al pubblico.
Ogni episodio riparte temporalmente prima della fine del precedente: attraverso gli occhi dei due Miles o di Kate osserviamo quindi un diverso punto di vista delle stesse vicende, scoprendo di volta in volta i retroscena di ciò che credevamo ci fosse già stato raccontato.
Ne risulta una narrazione a volte quasi frustrante, che rimanda di volta in volta la risoluzione del cliffhanger che chiude ogni episodio. Così facendo gli showrunner riescono però a dipingere un quadro completo e a mantenere un equilibrio perfetto riguardo ad ogni singola scelta – che tende spesso a riguardare tutti e 3 i protagonisti – dei personaggi, nessuno mai pienamente dalla parte della ragione o del torto.
La vicenda di Miles contro sé stesso finisce per far riflettere a fondo anche lo spettatore: la personificazione del doppio rende tangibile un conflitto personale che riguarda praticamente tutti, e nel quale tutti riescono a trovare tracce di un proprio tormento interiore, presente o passato; i quesiti esistenziali (ed anche morali, ma su questi glissiamo per evitare spoiler) che i protagonisti si pongono sono forzati da una dicotomia strettamente “fisica”, ma corrispondono ad una indagine interiore che spesso la depressione, l’abitudine o la semplice disillusione tendono a rimandare fin troppo.
Il messaggio finale che gli autori vogliono trasmettere è ampio e diversamente interpretabile da spettatore a spettatore, ma è in ogni caso quasi impossibile rimanere indifferenti alla vicenda, che riesce ad esplicitare – e semplificare – tutta una serie di meccanismi mentali profondamente radicati in ognuno: vi rimandiamo quindi (di nuovo, per evitare spoiler) alla visione di Living With Yourself, e a trarne gli “insegnamenti” che ne potrebbero derivare.
O anche, senza eccessivi trip mentali, solamente per godere di una storia semplicemente complessa, divertente e leggera, con un Paul Rudd in grande spolvero.
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