Joker: chi ride adesso?

Joker: chi ride adesso?

Di Roberto Recchioni

La scrittura del cinema americano è storicamente caratterizzata dalla presenza di una forte bussola morale interna alle sue storie, che distingue con chiarezza il giusto dallo sbagliato e determina i meccanismi di causa ed effetto. In parole semplici: le azioni moralmente riprovevoli portano, quasi immancabilmente, a una punizione di qualche sorta. Le cause di questa cosa sono molteplici e vanno ricercate, in primo luogo, nella profonda impronta che il puritanesimo dei padri pellegrini ha lasciato nella cultura USA e che poi ha trovato un suo eco nei tanti codici di autocensura che, lungo tutto il corso della sua storia, Hollywood si è imposta (basti pensare a tutte le pellicole nate nel rispetto, forzato o meno, del codice Hays). Ma è anche, molto più prosaicamente, una questione di soldi perché i film meno moralmente sfumati trovano un maggiore successo di pubblico, essendo più facili da decodificare e digerire. In questo contesto, anche un autore come Martin Scorsese, che sin dall’inizio della sua carriera ha portato a schermo la fascinazione del lato oscuro della vita, non si è mai sottratto alla legge shakesperiana che vuole che “i piaceri violenti siano destinati a violenta fine” e mai ha sottratto i suoi personaggi alle conseguenze delle loro azioni. È particolarmente evidente per il Travis Bickle di Taxi Driver, per i ragazzi di Quei bravi ragazzi, per l’Asso Rothstein e il suo amico Nicky Santoro di Casinò, per gli immigrati di Gangs of New York, per i poliziotti e i criminali di The Departed, per l’investigatore Daniels di Shutter Island e per il Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street. Personaggi che Scorsese rende umani e affascinanti, e per questo capaci di sviluppare una forte empatia con il pubblico, senza però travalicare mai quella linea che passa tra il ritratto e l’elegia. È per questo motivo che nessuno spettatore vorrebbe davvero essere un “bravo ragazzo”, nonostante i personaggi dei Bravi Ragazzi siano così facili da amare: perché Scorsese non ci permette mai di dimenticarci che, di base, i suoi protagonisti sono degli assassini, dei criminali, dei figli di puttana e che, presto o tardi, pagheranno il prezzo delle loro azioni. E lo pagheranno con gli interessi.

Cosa succede però se la materia magmatica e potenzialmente pericolosissima di un tipico film di Scorsese finisce nella mani di un regista che ha sempre dato prova o di non averla proprio quella bussola morale, o di volerla scardinare? Succede che in sala arriva un film come Joker, ecco cosa.

Fino al 2016, Todd Phillips era ritenuto un regista di commedia scollacciate e politicamente scorrette come Road Trip o la trilogia della Notte da Leoni, pellicole sopra le righe che camminavano sul confine della sgradevolezza senza mai travalicarlo. In sostanza, era una versione più innocua e meno demenziale dei Fratelli Farelly, forse meno divertente, ma più facilmente digeribile per il pubblico di massa. Nel 2016 però, ha diretto Trafficanti (War Dogs), una pellicola di medio successo commerciale che però lo ha segnalato come un regista che aveva anche qualcosa da dire e che sapeva dirlo. Questo gli ha permesso di presentarsi alla Warner con l’idea di un diverso approccio per i loro film di supereroi, qualcosa di piccolo, non necessariamente legato all’idea di un universo narrativo condiviso sulla falsariga dei film Marvel, basato sull’esplorazione, principalmente psicologica, di un singolo personaggio, magari un cattivo. Magari il Joker.
La Warner, sorprendentemente, lo sta a sentire e gli da il semaforo verde per cominciare a sviluppare il film. Philipps si mette al computer e, assieme a Scott Silver, tira giù un primo scritp che prende così larga ispirazione da Taxi Driver, Toro Scatenato e, soprattutto, Re per una Notte, che il coinvolgimento di Scorsese come produttore, diventa una cosa praticamente obbligata. Il regista del Queens sale a bordo della nave in partenza ma ne scende quasi subito per più pressanti impegni lavorativi, il suo beneplacito dà però mano libera a Phillips per citarlo in ogni modo e maniera. Nel frattempo, Joaquin Phoenix viene scritturato come attore principale e il film prende definitivamente la sua forma, lontano dai piani (più o meno naufragati) del DC Extendend Universe, e questa è, probabilmente, la sua più grande fortuna.

Il resto è cronaca recente: Il Joker di Phillips viene presentato in concorso al festival di Venezia e si porta a casa il Leone d’Oro e l’Europa sembra perdutamente innamorata della pellicola. In USA le cose non sono altrettante semplici e scoppiano parecchie polemiche attorno alla carica potenzialmente destabilizzante che il film si porta dietro, legata al rischio di emulazione da parte degli spettatori più deboli di testa e alla violenza portata in scena.

Joker film

Ma, detto questo, il film com’è?
Interessante. Molto.
Non “bellissimo” o “un capolavoro” come ce lo ha raccontato una certa critica forse troppo facile agli entusiasmi o troppo sensibile nei confronti di una prova recitativa (quella di Phoenix) quasi sempre in overacting (cioè molto, molto, molto, sopra le righe), ma sicuramente per nulla trascurabile nel panorama cinematografico attuale.
Non tutto funziona, sia chiaro:

– I primi due atti girano spesso a vuoto nello sviluppo di un vero tessuto drammatico e nella creazione di una psicologia credibile per il protagonista.

– La ricercata estetizzazione della fotografia vanifica spesso gli sforzi di creare un’atmosfera di livido realismo.

Joaquin Phoenix esagera, esagera, esagera, fino a diventare stucchevole nella sua pur evidente bravura.

– Il debito con alcuni capolavori di Martin Scorsese è quasi imbarazzante e il confronto tra le opere originali e quella derivativa è abbastanza impietoso.

Ma quando sembra che il film sia destinato ad accartocciarsi mestamente sulle sue ambizioni, ecco che arriva il terzo atto, che tira le fila della trama, fa esplodere le cariche di esplosivo che sono state disposte lungo il corso di tutta la storia, e deflagra in un tripudio nichilista di rara potenza, bellezza e, forse, incoscienza.
Perché ancora non mi è chiaro se Todd Phillips sia un sempliciotto inconsapevole, che ha portato a schermo una mina socialmente destabilizzante, priva di una anche vaga bussola morale e che finisce per glorificare le azioni di un pazzo, o se sia, invece, un autore ben consapevole della portata e delle implicazioni della sua opera e che abbia intenzionalmente deciso di guardare il mondo bruciare.

A giudicare dalle sue recenti dichiarazioni in cui mette sullo stesso piano la violenza cartoonesca di un antieroe come John Wick con quelle del suo Joker, mi viene da pensare che la prima opzione si a la più corretta ma la verità è che non è così importante perché il film, quali che siano state le intenzioni di Phillips, rappresenta una mosca bianca nel panorama del cinema USA. Questo Joker è mille volte più vicino al Fight Club di Fincher, o a un certo cinema di contestazione nato nella stagione della New Hollywood, o ad un certo tipo di cinematografia europea, che a qualsiasi cinecomic moderno. E, a proposito di cinecomic, molto si è parlato dell’aderenza o della distanza dal canone di questa pellicola. Io ve lo dico chiaro e forte: questo è un film sul Joker, non su una persona disturbata che si trucca da pagliaccio e si fa chiamare, casualmente, come il villain della DC Comics. È un film perfettamente iscritto nella mitologia di Batman e porta a schermo l’origin story (una delle tante legate al personaggio) della nemesi del Cavaliere Oscuro.
Non c’è scappatoia o distinguo che tenga, si tratta, a tutti gli effetti, di un film tratto dai fumetti DC, e, volendo, potrebbe essere tranquillamente il punto di partenza per il prossimo film su Batman che verrà.
Detto questo, in conclusione, Joker è un film pienamente meritevole della massima attenzione, che farà discutere molto e che animerà dei dibattiti, sociali e culturali interessanti.
Alla luce di tutto questo, non è poi così rilevante se sia un film così controverso perché intenzionalmente concepito in questa maniera o perché sfuggito di mano ai suoi creatori.

È una pellicola che non ti aspetti e che, a rigor di logica e di mercato, non dovrebbe esistere.
Invece esiste.
E merita di essere vista.
Anche più volte.


P.S.
Nota a margine sul film: ci sono molte scene di violenza, mostrata in maniera anche brutale, ma la cosa più dura del film è una scena omessa, intenzionalmente, che crea un vuoto narrativo realmente inquietante. Dimostrazione che sia come sia, ma Phillips non è per nulla un cretino.

Illustrazione esclusiva di Roberto Recchioni

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